Pergamene buone da mangiare


Ma poiché la fame aguzza l’ingegno e il cuoio e le pelli cominciarono a scarseggiare, i più abili ed ingegnosi presero ad assaggiare e a provare a consumare pergamena; e avendo l’esperimento funzionato, vi ci si buttò con tale foga, che non ci si limitò alle pelli di pergamena bianca, ma vennero mangiate anche le lettere, i titoli, i libri a stampa e manoscritti, e non si esitò neppure di fronte ai più antichi, vecchi di cento o centovent’anni. Le si preparava lasciandole a mollo per un giorno o due, a seconda di quanto lo permetteva la fame, cambiando spesso l’acqua; le si raschiava poi bene con un coltello e le si faceva bollire per un giorno, o per una mezza giornata, fino a che non diventavano tenere e molli, cioè fino a quando strappandole e tendendole con le dita non risultavano viscide e appiccicaticce; a questo punto le si cuoceva in fricassea come trippa, oppure le si cucinava con erbe e spezie come un bollito. Anche i soldati del corpo di guardia e quelli della cittadella le grattavano e le ungevano con del sego di candela, e le consumavano così, dopo averle grigliate un po’ sul carbone. Ho visto persino mangiarne alcune in cui i caratteri stampati e le scritte a mano erano ancora visibili, e li si poteva leggere nei piatti pronti per essere mangiati.

Jean de Léry, Histoire memorable de la ville de Sancerre (1574)

Il tema della conservazione di libri e manoscritti è relativamente nuovo, anche se le pratiche conservative sono molto antiche. Si pensi, per esempio, al poema Ad tabulas (s. XI) dell’abate Baudri, del monastero di Saint-Pierre de Bourgueil-en-Vallée, dedicato al restauro delle sue tavolette cerate: Huic vestro morbo nostra pietate medebor.

All’interno del sistema sociale, la tematizzazione è funzionale alla costruzione mediatica della realtà; reale è ciò che viene ritenuto tale. Ogni mattina, con la lettura dei giornali, si determina ciò che è successo e ciò che dobbiamo conoscere. I temi orientano la comunicazione all’interno del sistema sociale e forniscono ai media possibili argomenti per la costruzione della loro agenda. Il tema della conservazione, per esempio, facilita il coinvolgimento di una serie di sistemi (diritto, scienza, storia, politica) che possono offrire i propri contributi, i quali altrimenti rimarrebbero circoscritti nel proprio club di specialisti.

L’esteso poema di Baudri si riferisce alla questione della scrittura e della cancellatura, della memoria e della sua altra faccia, l’oblio. Nei dettagliati regolamenti dei gesuiti riguardanti gli archivi e le biblioteche manca l’orientamento che oggi potrebbe essere determinante: portare al presente resti di passato, costituendo un presente omnipresente. Quei frammenti che arrivano dal passato e prolungano la loro esistenza tra di noi, aiutano a creare l’illusione che almeno dal passato provenga qualcosa di certo. Quindi, un presente che si dilata, un passato che non passa e un futuro di difficili e minacciosi contorni. Insomma, quelle pratiche conservative funzionavano in un regime di temporalità diverso dal nostro, che è segnato dal presentismo.

Evert Collier (1642-1708), Vanitas.

Le comunicazioni che genera il sistema sociale riguardo i libri aiutano a capire i diversi regimi di temporalità e l’emergere del tema della conservazione dei beni librari. Durante il secolo XVII secolo libri e documenti compaiono spesso nell’iconografia delle vanitas, sono simbolo dell’effimero, della fugacità del tempo e per tanto associati alla morte. La celebre poesia di Francisco Quevedo evoca questa comunanza tra la lettura e la morte: Retirado en la paz de estos desiertos, / con pocos, pero doctos libros juntos, / vivo en conversación con los difuntos, / y escucho con mis ojos a los muertos. (Ritirati nella pace di questi deserti / in compagnia di pochi libri dotti, / vivo in conversazione coi defunti / e sto a sentire coi miei occhi i morti.)

Molti dei nostri codici manoscritti si presentano con dei fogli membranacei che ricoprono o costituiscono le loro coperte; frammenti di pergamena servono come rinforzo di cerniere, come componenti dei dorsi o delle cuciture. Questi resti pergamenacei, che già per loro erano diventati di “riuso”, erano semplicemente funzionali per trasmettere i loro codici e gli insegnamenti che racchiudevano.

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Per alcuni, queste pergamene oggi destano un particolare interesse. Sono studiate per cercare di risalire al codice di appartenenza. Perfino, una specie di disciplina denominata “frammentologia” cerca di scovare i resti di pergamena nascoste nelle carte di guardie, nel dorso o nelle cuciture del volume. Queste estrazioni spesso mettono a repentaglio la integrità del libro e aprono aspre polemiche sull’opportunità di queste operazioni di “scavo”.

Questa conservazione che appare come eccessiva e contraddittoria è alle antipodi di quello che è successo nei drammatici giorni dell’assedio di Sancerre. L’ugonotto Jean de Léry, reduce di una spedizione all’attuale stato di Rio di Janeiro per fondare l’effimera colonia France Antarctique (1556), torna in Francia. Nella città di Sancerre condividerà le sorti della popolazione assediata dalle truppe papiste che cercheranno di annientare quel focolaio di resistenza ugonotta. Nei lunghi mesi dell’assedio, libri e pergamene faranno parte del povero menù degli assediati. Perfino Léry registra alcune ricette, come per esempio la preparazione delle pergamene in fricassea. Invece i soldati più affamati e frettolosi si conformavano con arrostirle con un poco di grasso. Anzi, quel gesto disperato sarà prodromo di azioni ben più drammatiche.

La storia della violenza religiosa raggiunge nel libro di Jean de Lery, Histoire memorable de la ville de Sancerre (1574), momenti di rara drammaticità. In quello scenario sarà testimone di un crimine prodigieux, barbare et inhumain. Il 21 luglio 1573 scopre che un vignaiolo e sua moglie, in compagnia di una donna più anziana, avevano mangiato la testa, il cervello, il fegato e altri viscere della sua piccola figlia che era morta di fame. Je fus si effrayé et esperdu, que toutes mes entrailles en furent esmeues, scrisse Jean de Léry.

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