Noi voghiamo in un vasto mare, sospinti da un estremo all’altro, sempre incerti e fluttuanti. Ogni termine al quale pensiamo di ormeggiarci e di fissarci vacilla e ci lascia. Nulla si ferma per noi. E’ questo lo stato che ci è naturale e che, tuttavia, è più contrario alle nostre inclinazioni. Noi bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile e un’ultima base sicura per edificarci una torre che s’innalzi all’infinito; ma ogni nostro fondamento scricchiola, e la terra si apre fino agli abissi. (Pascal, Pensieri)
Tra le difficoltà della nostra società vi è anche quella di descrivere sé stessa; anzi, questa potrebbe essere l’origine di molte altre problematiche che affronta. Il dibattito intorno al termine postmodernità è un esempio dell’utilizzo insoddisfacente della impalcatura concettuale della vecchia Europa per definire la nostra società.
La disciplina storica sarebbe in grado di assumersi una parte di questo compito descrittivo? Questo quesito richiama la domanda posta da Michel De Certeau. Quando il ricercatore, dopo una giornata di lavoro, esce dall’archivio e abbandona lo spazio che gli concedeva un ruolo, potrebbe chiedersi: Qual è il mio mestiere? Camminando per la strada che lo riporta a casa s’interroga: Qual è il rapporto tra il mio lavoro e la società? Qual è il legame tra le mie scelte metodologiche e tutto il resto?
Per rispondere dovrebbe fare entrare nel proprio campo di osservazione la sua attività di ricercatore. Diventerebbe un osservatore che si osserva. Aprirebbe così il cammino della comprensione storica. In questo modo, si colloca nella posizione di chi riconosce che la produzione storiografica è sempre relativa a una pertinenza: è pertinente a un luogo, è il risultato di una determinata pratica e, per ultimo, è il frutto della sottomissione alla servitù della scrittura, come direbbe Henri-Irénée Marrou. Detto altrimenti, tutto il suo fare è artificiale. Riconosce che non è un Caronte che traghetta i morti da una riva all’altra.
Con umiltà, virtù che qui è operativa al suo fare, lo storico si definisce un osservatore. Vale a dire, riconosce che il risultato della sua osservazione, a partire da altre distinzioni, potrebbe essere diverso. Quindi, si fa carico delle proprie scelte. Non è un automa inspirato dal Destino, né tantomeno da un osservatore oltremondano. Non solo, ammette che le cose possano essere andate in un altro modo. Piantato nella modernità è aperto all’inatteso, alla contingenza. La storia, intesa come scrittura, opera con il valore della contingenza che permea la storicità di tutto ciò che avviene. La storia prodotta entra nel suo campo di osservazione e si presenta come il risultato del rapporto che una determinata società ha con il reale.
Se pensassimo che il testo dei Pensieri, che apre questa riflessione, descriva in senso assoluto la nostra società moderna, vuol dire che apparteniamo a quella vecchia Europa e che non abbiamo i documenti in regola per abitare la nostra. L’inquietudine che abita il testo di Pascal può avere un’aria di famiglia ma non è la nostra. Il ragionamento pascaliano suppone una costruzione costituita da una cosmologia e da una ontologia per noi improbabile. La torre che s’innalzi verso l’infinito, il faro sicuro che orienti e raduni tutti gli uomini, che riduca drasticamente ogni contingenza, non solo è una nuova Babele improbabile ma a sua volta è piena di insidie e di violenze.
Diversi rivoli di ricerca, partendo dai documenti, ci danno l’opportunità di costruire studi di caso per tratteggiare l’evoluzione che dall’inquietudine barocca arriva alla nostra società che del rischio, frutto delle spinte decisionali, ha fatto il suo habitat. Abbandonare le costruzioni ontologiche del mondo permetterà anche di considerare il paradosso del rischio che comporta anche tante possibilità.
Il prossimo 10 aprile, in compagnia di un gruppo di studenti della Sapienza Università di Roma, condivideremo le nostre scelte, i nostri strumenti e le nostre strade di ricerca.

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