Evocando (6 novembre 1930)


Evocare è chiamare i morti. L’attività della scrittura della storia si organizza attorno a una morte. Una enorme carica finzionale dovrà essere collocata affinché il racconto sembri verosimile e si manifesti come vivente colui che non lo è. La storia, in quanto scrittura moderna e occidentale, più che del passato parla del rapporto che lo storico mantiene col passato. Allo stesso tempo, si sforza per distinguere ciò che è vivo da quello che è morto. In questo senso, per Michel de Certeau, i gesuiti di oggi si trovano in un territorio umbratile, tra quello che furono e quello che vorrebbero essere. La legge di questo luogo è così universale che può essere applicata a diverse situazioni. Questo entre deux non può essere limitato dal binomio continuità/discontinuità con il quale spesso si costruisce la narrazione storiografica, se così fosse dovremmo ammettere una realtà per tutti a partire dalla quale poter stabilire una frattura. Vorrebbe dire avere ciò di cui ogni giorno lamentiamo la sua mancanza: un punto di osservazione comune per guardare il mondo. Nella nostra società poli-constestuale, nella quale la realtà non è più una “realtà comune”, questa operazione si presenta come altamente improbabile. La strada tra “loro” e “noi” potrebbe cominciare dalla comprensione e descrizione del limite e della differenza. L’operazione storiografica si concentra, così, su una storia della differenza piuttosto che nel ricamare delle analogie.

Il 6 novembre del 1930 fu inaugurata la nuova sede della Pontificia Università Gregoriana, durante il rettorato del P.  Giuseppe Gianfranceschi (1875-1934), un breve filmato di quasi dieci minuti conservato nell’archivio narra, a modo suo, quella giornata. Ogni tanto torniamo su quei fotogrammi. Tutto succede in un mondo in bianco e nero. Sorrisi impacciati, poca dimestichezza davanti a una cinepresa che non permette la messa in posa così come ancora prevedeva l’arte fotografica. Sembrano delle immagini rubate. Niente a che vedere con la costruita naturalità dei nostri autoscatti. Quelle riprese si potrebbero prestare a stabilire simpatiche analogie con degli “eventi” che oggi si producono nella stessa sede. A un primo sguardo, si vorrebbe trovare una familiarità con quei volti, nonostante la moda clericale, le macchine e gli ombrelli oggi da museo e i gesti di congedo antichi, le mura sono più o meno le stesse, la piazza in cui si svolge l’azione è sempre quella. Ma l’orizzonte di aspettativa è mutato, negli ultimi 90 anni ha altri connotati. Tra noi e loro la distanza può apparire enorme e la loro lingua opaca. Stabilire delle distinzioni potrebbe contribuire a ridurre la complessità a una dimensione dotata di senso invece di fare finta che non esista e soccomberci.

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