Il secolo XVII è un tempo pieno di trasformazioni. Questa affermazione non potrebbe che raccogliere un alto numero di consensi. I dissensi sorgerebbero nel momento in cui cercassimo di esplicitare le distinzioni con le quali osserviamo il cambiamento. Le complicazioni comincerebbero nella misura in cui volessimo essere sottili e andassimo a vedere sotto la tela del “textum” (subtīlis, der. della locuz. sŭb tela).
Potremmo evocare, nel giorno del ricordo di San Roberto Bellarmino, uno dei tanti testi che hanno cercato di plasmare la sua vita in una narrazione. Una pagina della Vita scritta dal gesuita Daniello Bartoli (1678), riporta una impressione attribuita al segretario del cardinale, Matteo Torti, riguardo il carattere del Bellarmino. La sottigliezza di questo testo potrebbe aprire una riflessione sul lungo cammino di deontologizzazione del mondo che può osservarsi in quel secolo. Su questa strada può anche considerarsi la deontologizzazione del codice morale che comincia ad essere percepito come unità: non è possibile avere delle virtù senza vizi. Così, si allontano i tempi in cui le virtù si sostenevano a vicenda, mentre che i vizi e gli errori lottavano tra di loro e non si ammetteva nessuna convivenza tra gli uni e gli altri. Nuovi rapporti si stabiliranno tra l’essere e l’apparire che saranno contenuti in certi concetti come il “dominio di sé”. Questa, ed altre idee, subiranno ulteriori trasformazioni, nei giorni nostri, quando l’impero dell'”autenticità” vorrà superare ogni di/simulazione.
Chissà se da queste o da altre prospettive potremmo tornare a questi racconti di vita.
«Il dottore Matteo Torti, che servì il cardinale parecchi anni, e che gli era ognidì più volte alla mano, per l’ufficio che haveva di scrivergli, dal continuo osservarlo, il giudicò (come ancor altri de’ suoi), di natura collerica in estremo, e soggiugne, ma per un solo istante. Gli si vedeva un sottil vapore del sangue spiritoso salirgli al volto e colorarglielo un poco: e allora tutto si raccoglieva in sè stesso, senza più che chiudere un pochissimo, o abbassar gli occhi, poi sorridere, quasi ridendosi di sè stesso, spegnere quella vampa che gli si era accesa nel cuore, senza altro effetto che vaporargli, e tingerli un poco il volto»