Irene Pedretti e Martín M. Morales
Gli archivi e le biblioteche che da tempo navigano tra gli scogli istituzionali ogni tanto rischiano di essere sedotti dal canto delle sirene digitali. Risulta in verità paradossale, per esempio, che non riuscendo a conservare le antiche collezioni la prima soluzione che balena nella mente di qualche amministratore è di fare uno scatto dell’apocalisse che si sta compiendo per così lasciare che si compia finalmente. Così facendo se prima si aveva un problema adesso se ne avranno due: il primo relativo allo stato di deterioramento dei manufatti, continuerà ad esistere e probabilmente peggiorerà. La figura del conservatore muterà poiché non sarà più incaricato di rilevare lo stato di conservazione dei documenti in occasione delle richiesta di utenti diventati remoti. E’ auspicabile che le altre funzioni, quali il controllo ambientale e la verifica periodica dello stato del patrimonio rimangano inalterate. Il secondo presenta nuove problematiche relative alla gestione degli oggetti digitali con altissimi costi e sfide tecnologiche degne di Sisifo. L’attività di acquisizione delle immagini implica l’allestimento di un laboratorio o l’utilizzo di service esterni che pur garantendo standard di altissima qualità al momento della loro realizzazione potrebbero essere soggetti, in un futuro nemmeno troppo lontano, ad aggiornamento in virtù di una innovazione tecnologica sempre più veloce. Va sottolineato come la stessa procedura della digitalizzazione introduca un rischio nuovo nella manipolazione dei documenti. Infine la gestione di questi “nuovi dati” implica un loro immagazzinamento in uno o più server, una previsione di crescita e un aggiornamento dei formati digitali per non incorrere nell’obsolescenza.
Davanti a certe innovazioni e politiche tecnologiche si ha la sensazione di essere a confronto con una stupidità intelligente, come direbbe Robert Musil: “Non c’è praticamente nessun pensiero importante che la stupidità non sia in grado di utilizzare, essa è mobile in tutti i sensi e può indossare tutti i vestiti della verità” (Discorso sulla stupidità). La stupidità non si può separare dall’intelligenza che la produce. Il rimedio è esercitare il potere della propria intelligenza senza essere guidati da un altro: sapere aude !, è ancora l’invito kantiano. Questa non è una conquista per sempre, può perdersi come hanno dimostrato Max Horkheimer e Theodor Adorno nella Dialettica dell’illuminismo (1947).
Dalla stupidità, nell’accezione di bêtise secondo Gilles Deleuze (l’animalità propria dell’uomo), nella quale siamo tutti inevitabilmente immersi è possibile emergere a intermittenza. La bêtise non è estranea all’intelligenza ed è per questo che si può parlare di una battaglia dell’intelligenza contro l’intelligenza. Si deve, come dice Bernard Stiegler nel suo État de choc, risalire perpetuamente dalla propria bêtise attraverso una intelligenza in atto. Secondo Aristotele è attributo esclusivamente divino essere atto puro e permanente. Ogni operazione dovrebbe essere soggetta a una costante attenzione rimanendo nella consapevolezza di una ricaduta nella bêtise ricorrente che potrebbe giustificare e razionalizzare la peggiore delle stupidità. Né il pharmakon del libro né quelli pharmaka generati dalle nuove tecnologie devono prendere il posto dell’intelletto. Alcuni progetti di digitalizzazione, costosi e famosi, sono intrisi di una stupidità intelligente, non solo di quella quotidiana e personale che ci assilla ma di tipo sistemico¹.
I luoghi comuni intorno a certe modalità e progetti di riproduzione digitale di documenti dichiarano:
- un miglior servizio ai ricercatori. E’ indubbio che coloro che entrano in un archivio interessati al contenuto testuale del documento non dovranno più spostarsi da casa per farlo ma resta implicito nella ricerca che non stiamo lavorando solo sui testi ma su documenti che contengono informazioni materiali inscindibili dal contenuto. Il miglior servizio che si può prestare al ricercatore è di aiutarlo a capire la complessità dell’oggetto che ha dinanzi.
- consentire la consultazione di documenti sinora inaccessibili ad un nuovo pubblico compreso anche quello curioso. Secondo noi, questa possibilità implica una grande complessità nel gestire e restituire informazioni ai non specialisti che comporterebbe l’attivazione di percorsi e strategie didattiche normalmente non previste. In caso contrario ciò che il curioso vedrà non differirà molto dallo sguardo superficiale rivolto ad una miniatura riprodotta in un calendario.
- la restituzione di un oggetto come l’originale. Partendo dal presupposto che nessuna riproduzione è, per definizione, equivalente all’originale e che la tecnologia attuale consente un’elevata elaborazione delle immagini (colori, profondità, gestione dei livelli) questa dichiarazione sembra aver maggiormente a che fare con una dimensione commerciale e non certo con una scientifica.
Ci sembra di intravedere quel fenomeno sociale contemporaneo che rende l’uomo incapace di gestire il desiderio in quanto tale e lo fa vivere di costanti pulsioni alimentate dal sistema delle “industrie culturali”. Alcuni progetti di riproduzione digitale sono invasi non da una logica del bisogno ma da una logica ossessiva e pulsionale che crea l’illusione immediata di possedere l’oggetto. In questo senso, si disfano anche i necessari vincoli sociali e collaborativi nei quali crescono i saperi; nondimeno la stessa tecnologia potrebbe essere pensata e costruita come milieu associativo per questi legami. Riconoscendo la dimensione farmacologica della tecnologia, veleno e rimedio, potremmo ripartire proprio dai medesimi luoghi comuni per problematizzarne i presupposti e pensare un utilizzo ragionevole che ci riporti all’ideale pratico del “regno dei fini”.
Come sempre, ammiro l’illuminata riflessione, che condivido pienamente. Il digitale passerà – i documenti resteranno (se non ce ne dimentichiamo lungo la strada). Un caro saluto Antonella ________________________________________
Grazie e buon lavoro.
Condivido e sottoscrivo senza riserve le riflessioni: esorcizziamo il demone della digitalizzazione! Come frequentatore assiduo di archivi e biblioteche, devo però osservare che spesso la tendenza dei “conservatori” è quella di imporre solo ed esclusivamente la consultazione di riproduzioni (digitali e di buona qualità quando va bene, microfilmate e pessime quando va male). Per avere l’originale – spesso indispensabile per esaminare un tratteggio, una filigrana, una rasura – si deve chiedere l’intercessione dei santi patroni delle biblioteche e degli archivi.
Grazie del commento.
Nulla quaestio. Le vostre anamnesi della ‘malattia’ sono esatte al 100%. Se c’è un problema, mio personale (ma che immagino largamente condiviso), è l’essere caduto, tout simplement, nella rete dei digitalizzatori e dei digitalizzati; la condizione di pensionato, il non fruire più di fondi per muovermi da una biblioteca ad un’altra, stile che ho tenuto con qualche successo finché sono stato in servizio attivo, ha infatti contribuito ad una mia (già incipiente ma ora sclerotizzata) abitudine di ‘appoggiarmi’ al digitale, alimentando, credo. questa sorta di marché aux vaches che è la digitalizzazione da voi (e da me) denunciata.
Grazie per seguirci.
sante parole. La materialità del documento è ricca di informazioni che la mera immagine digitale non può restituire. La pergamena italiana è rigida e coriacea , quella tedesca è morbida e pelosetta. I fascicoli archivistici delle dominazioni austriache sono chiusi con spago tramite un nodo particolare, diverso da quello “italiano”.
Ben venga, quindi, il digitale per chi è costretto a studiare da lontano, ma l’immagine NON è il documento. Ed è il documento che bisogna conservare.
Grazie del commento e per questi esempi illuminanti.
L’articolo traduce letteralmente in parole le mie pluriennali riflessioni sulla digitalizzazione. Grazie, condivido in toto.
Grazie a lei del commento. Buon lavoro.
Ciao,
ahime non sono totalmente d’accordo. Sono un conservatore e di sicuro apprezzo quanto qui commentato circa spaghi italiani, austriaci o tedeschi. Il digitale indubbiamente ha creato un modo per “attirare” pubblico e quindi possibilità di finanziamenti o altri Interessi (buoni o cattivi)..
Ci sono tanti casi in cui il digital ha dato supporti concreti alla conservazione (Il codice C di Archimede)… Insomma, l’analisi va fatta in modo più ampio e non solamente pensando alla conservare su un hard disk la copia gigabyte dell’opera ( senza la quale peraltro, non avremmo ora potuto apprezzare il Caravaggio dell’Oratorio di San Lorenzo – anche se in copia).
Quindi, le dimensioni su cui riflettere sono molte e vanno tutte in sintonia!
– conservazione, sempre e sempre
– digitalizzazione per opere più rare
– formazione adeguata alla conservazione e al digital
…insomma, c’è molto lavoro da fare
grazie e saluti
Oronzo
C’è un argomento che non vedo affrontato, sono incappato in archivi digitali privi di un’adeguata catalogazione, mancava addirittura una valida indicizzazione che mi indirizzasse verso l’oggetto desiderato, rendendo tutto il lavoro inutile. Ho visto pure file inutilmetne pesanti, più di mezzo Gb, dove ci vuole un pc della Nasa per usufruirne online. Qualche ente tipo Unesco dovrebbe scrivere delle linee guida in proposito. Grazie dell’attenzione
giancarlo
Verissimo. Un argomento senz’altro da affrontare.
Vi ringrazio per le interessanti riflessioni e per i commenti che ho avuto occasione di leggere
Vi porto la nostra esperienza di piccola biblioteca moderna confidando che abbiate suggerimenti/correttivi/idee da proporci..
Da alcuni anni, lavorando in una biblioteca specializzata che non annovera che una decina di volumi del 1700, confesso che mi sto anche io “votando” al digitale…
L’idea -che nasce anche dall’essere anche fruitore di archivi e biblioteche (ormai per scarsità di fondi per lo più utente virtuale) – è quella di offrire a curiosi, studenti e professionisti la possibilità di consultare quello che possediamo (in gran parte dimenticato), consentire a chi non ha la possibilità di venire presso di noi o è interessato al solo contenuto testuale del documento di trovare in rete quello che cerca, ed infine comunicare a chi davvero è interessato al volume nella sua interezza che quello che cerca è qui e che saremmo più che felici di consentirne lo studio..
Per quanto riguarda le attività, in assenza di strumentazioni adeguate e fondi, facciamo digitalizzare uno due testi l’anno da chi può garantire che ciò venga fatto al meglio (sia dal punto di vista del documento che degli standards) per poi darne diffusione attraverso più punti/OPAC/portali..
dal punto di vista conservativo, dopo aver fatto valutare lo stato dei nostri esemplari, confidiamo che la digitalizzazione possa essere uno strumento per monitorare il nostro piccolo patrimonio “antico” rendendo evidente (anche a chi verrà dopo) lo stato di conservazione dell’originale così da intervenire laddove si renda necessario..
Grazie e buon lavoro
Loredana
Gentilissima Loredana, ovviamente ogni realtà bibliotecaria o archivistica ha esigenze diverse. La vostra ad esempio ha pochi volumi da valorizzare e mi sembra che le decisioni che state prendendo sono quanto mai ragionate. Le osservazioni che abbiamo fatto non escludono la digitalizzazione a priori infatti come nel vostro caso va considerata una opportunità. La vera sfida che ci troviamo ad affrontare è quella di conservare un documento che nasce con una materialità diversa dal digitale.
grazie dell’attenzione e buon lavoro
Irene
Francamente non capisco il fine ultimo dell’articolo: presa coscienza dei problemi che la digitalizzazione porta, della necessità di adottare standard elevati, sia a livello di digitalizzazione, che di conservazione e ovviamente catalogazione, cosa viene proposto? Di non digitalizzare più? Di essere meno “stupidi”? Se si cominciasse ad essere più responsabili e conoscitori della materia e non lasciare tutto in mano agli informatici, sarebbe già un grossissimo passo avanti, almeno per la mia esperienza personale.
La responsabilità del dato e dell’accesso al dato, è nostra, non della softwarehouse o dell’informatico.
Mi sembra evidente che ci sono nel lungo periodo più vantaggi che svantaggi nella digitalizzazione, a patto di fare le cose nel modo giusto. Penso al materiale audiovisivo, che conosco meglio: per quanto tempo si pensa di avere a disposizione le macchine per la riproduzione dei supporti, che si deteriorano sempre di più ad ogni passaggio? Ovvio che la digitalizzazione è l’unico modo di preservare e fruire l’informazione.
Altrettanto ovvio (ma mica chiaro a tutti) che non basta la digitalizzazione ma va conservato anche il documento. Ho personalmente riversato tutte le mie cassette VHS, ma pur non avendo più un lettore VHS e ben sapendo che non ne producono più al mondo, non le ho buttate.
Sul fatto che la carta la sappiamo conservare da secoli e il digitale no, verissimo, ma vorrei far notare che se ci è rimasto poco di tutto quello che è stato scritto, è perché non ci sono state sufficienti copie di backup che hanno resistito a incendi, alluvioni, distruzioni varie. Esattamente come dovrebbe essere per il digitale. Il problema quindi non è il supporto, ma la copia e la conservazione dello stesso.
My two cents.
Signore MailMaster C.,
Evidentemente ogni esperienza porta a conclusioni differenti e nel caso di documenti d’archivio ahimè non si potrebbe parlare di copie di backup perchè il documento per essere considerato valido doveva essere originale e questo non solo nel Medioevo ma ancora oggi quando ci troviamo a firmare un documento da un notaio. La copia, come è evidente, ha tutto un altro valore, senza pensare alle possibilità di falsificazione. Quindi se per il digitale l’unica possibilità è, come lei dice, la copia per quanto riguarda i documenti fatti di carta/pergamena etc. l’unica possibilità è la conservazione … calamità naturali permettendo!
Il fine ultimo dell’articolo era semplicemente suscitare una riflessione e se fa un giro sul nostro sito si accorgerà dei diversi progetti di digitalizzazione!
buon lavoro.
Irene Pedretti
Ringrazio per la risposta.
Mi pare di capire quindi che è il caso di separare il materiale strettamente d’archivio, tipicamente legale, da tutto il restante mondo documentale. Mi sembra una distinzione un po’ forzata e limitante.
Il mio riferimento alle “copie di backup” era un modo per dire che l’unico modo per garantire una percentuale di sopravvivenza più alta è appunto fare copie, ma non necessariamente digitali.
Sulla necessità di avere l’originale sono assolutamente d’accordo, i progetti di digitalizzazione (compresi quelli che ho visto sul vostro sito) possono essere un modo per garantirne la preservazione, magari non ottimale, ma meglio di nulla.
Ma continuo a non capire il riferimento alla stupidità all’interno dell’articolo, a meno che non si intenda di lasciare tutta la digitalizzazione in mano agli “esperti”, atto che ho condannato fin da subito.
Credo che uno degli aspetti critici della dematerializzazione/digitalizzazione dei documenti sia quello della veloce obsolescenza dei sistemi e delle piattaforme Hw e Sw che innovando continuamente le tecnologie, secondo me volutamente per motivi di profitto, costringono a tenere il passo per non soccombere.
Chissà forse rimane sempre valido l’adagio scripta manent rispetto al “digitales volant”.
Grazie per le interessanti riflesioni. Le “sirene digitali” esistono davvero, e possono essere un vero pericolo, ma solo se bibliotecari e archivisti le subiscono passivamente (perché è più facile trovare finanziamenti per le digitalizzazioni che per altro). La federazione dei bibliotecari IFLA (International Federation of Library Associations and Institutions) ha da tempo proposto una utilissima guida per i progetti di digitalizzazione: https://www.ifla.org/files/assets/rare-books-and-manuscripts/rbms-guidelines/guidelines-for-planning-digitization-it.pdf.
(mi riferisco soprattutto ai problemi segnalati nel messaggio di Giancarlo Bascone).
Grazie per il suo commento. Che Ulisse, con la sua “metis” ci guidi.