La traditio

Caro Padre, su, mettiti sul collo, le mie spalle sono pronte a sorreggerti, questa fatica non mi peserà. Ovunque andremo il pericolo sarà comune e comune sarà la salvezza. Ascanio, che è piccolo mi accompagni, e Creusa mi venga dietro da lontano. (Eneide, Lib. II)
La rappresentazione di Enea che carica sulle sue spalle il padre Anchise con al seguito il figlio Ascanio diventa metafora iconica dell’archivio. In una stessa immagine appaiono coniugati passato e futuro che si declinano nella simultaneità del presente. Nello sfondo, brucia la città di Troia.
L’incendio è considerato come una cesura che segna un prima e un dopo, questa differenza, inoltre, permetterà simultaneamente di stabilire e di delimitare il presente. Qui interviene l’osservazione della scrittura della storia: costituendo l’archivio, segretando. La selezione di ciò che si mette da parte (secernere) è la prima traccia della scrittura che potrà, a sua volta, essere osservata. Poi, inizieranno a prendere forma i testi che daranno così vita a diversi e successivi intrecci narrativi (texere: intrecciare). La distinzione che poteva assicurare l’unità della differenza tra passato e presente era il concetto di eternità. In essa erano sussunti tutti i tempi; l’eternità fungeva da orizzonte di senso e di ordine. … le tre Persone divine osservano tutta la superficie ricurva del mondo popolato di uomini; vedendo che tutti vanno all’inferno, stabiliscono da tutta l’eternità che la seconda Persona si faccia uomo, per salvare il genere umano … Così recita il numero centodue degli Esercizi Spirituali di Ignazio di Loyola (1548). Dall’eternità la divinità contemplava tutti i tempi. Grazie alla distinzione tempo/eternità, il tempo, fragile e impietoso, segnava la differenza e permetteva così di denominare ed evocare l’eternità.
L’affievolirsi di questa distinzione nella società moderna darà un maggiore e nuovo ruolo alla storia e per tanto all’archivio. La storia nei panni di una maestra dovrà ricordare ad ogni generazione la sua provenienza e il suo destino. Si dovranno fondare una ed un’altra volta le origini, non basterà recitare la fondazione mitica, sempre uguale a sé stessa, ma si dovrà dare ragione del cambiamento così come di una costante quanto veloce variazione: nos in continua vivimus variatione, dirà Baruch Spinoza (Etica, 1677). L’incessante corsa per delineare la vita del fondatore di un’istituzione come la Compagnia di Gesù potrebbe testimoniare questa continua riscrittura della storia: quasi un secolo dopo la fondazione della Compagnia e dopo la pubblicazione d’importanti vite di Ignazio di Loyola, tra cui quella di Pedro de Ribadeneyra (1572) testimone diretto degli eventi, alcuni gesuiti esigevano ancora dal padre generale una nuova vita che facesse capire finalmente il “santo nascosto”, non soltanto agli esterni ma soprattutto agli stessi gesuiti. Questo desiderio si ripeterà lungo i secoli fino ai nostri tempi, quando si postulerà, a metà del secolo scorso, un “ritorno alle fonti” in quanto garanzia di genuinità e come possibilità autentica di rinnovamento. Negli ultimi decenni questo viaggio illusorio sembra aver perso la sua spinta creatrice e il desiderio di scoprire ciò che è nascosto è cominciato a scemare trascinando con sé il destino dell’archivio e l’aumento del disinteresse per le antiche carte.


Nell’Incendio di Borgo di Raffaello (1514) non arde Troia, è Roma a essere invasa da un fuoco vorace (847) che essendosi originato nel Borgo minaccia la Basilica di San Pietro. Leone X (1513-1521) scrive con la mano di Raffaello e della sua scuola una nuova origine. Celebra Leone IV che nell’affresco si affaccia dalla Loggia delle Benedizioni e con il gesto benedicente fa arretrare le fiamme. Si ricorda anche, sulla parete affianco, l’incoronazione di Carlo Magno da parte di Leone III (800).
Agli atti fondatori del potere papale (Leone III e Leone IV), Leone X si autorappresenta come colui che seleziona, sceglie e raccoglie una serie di temi: la figura di Leone IV evoca il muro che il pontefice fecce alzare per la difesa del cuore della christianitas, nell’epopea virgiliana si riscattano le origini più eroiche di Roma, delle quali il papato stesso si presenta come garante, sulle spalle del pontificato si porta il meglio di quella cultura classica rappresentata da Virgilio che conoscerà un nuovo floruit durante il rinascimento. Davanti a ogni cesura e crisi la Chiesa potrà attingere, inventarsi (invenior: trovare) dal proprio patrimonio per presentarsi mantellata con il paradosso di essere la stessa ma sempre nuova. Grazie al resto che si conserva, l’istituzione potrà ricostruirsi successivamente e orientarsi nella complessità, stabilire analogie e ridurre significativamente la fatica, degna di Sisifo, di stabilire per ogni causa il corrispondente effetto.
La stessa storia della Compagnia di Gesù ricorda l’immagine di Enea, soprattutto negli esili del XIX secolo. Il corpo gesuitico in esilio si muove con il suo corpus documentario e con le sue biblioteche. Il racconto dello studente gesuita Luis Martín, poi diventato superiore generale dell’Ordine, che narra il trasloco della biblioteca del collegio di León (Spagna) prima dell’occupazione da parte delle forze militari durante i moti rivoluzionari del 1868, può rappresentare la comunanza di destino tra questi due corpi.
Ciò che si salva dall’incendio, da quell’avvenimento osservato in quanto cesura, il resto selezionato, è quello che conserva l’archivio. Innanzi alla domanda sull’opportunità o meno di conservare, alcune risposte si presentano immediate e semplici. Conservare sarebbe far passare da una generazione all’altra la memoria del passato.
L’archivio, lungi da conservare una totalità, conserva un resto scelto e voluto. L’archivio non conserva il passato, se per passato intendiamo una realtà congelata. Ciò che chiamiamo passato, come succede con quello che chiamiamo realtà, è sempre passato osservato. Conserviamo non il passato ma alcuni frammenti sui quali gettiamo uno sguardo necessariamente diverso da quello che li costituì in quanto documenti. Negare questa differenza è rifiutare d’intraprendere l’operazione storiografica. Potremmo supporre che ciò che ci arriva dal passato proviene da un mondo altro, e anche se proviene dall’Europa del XVI secolo, pur parlando di santi o di re, è qualcosa di selvaggio così come vengono da alcuni considerate certe abitudini dei tupinambá dello stesso periodo.
Diceva Michel de Certeau: per il semplice fatto di esistere siamo eretici riguardo al passato. Eresia necessaria per essere all’altezza dei nostri tempi. Solo a partire dal segno della differenza ci è data la possibilità di conoscere qualcosa. C’è tuttavia un’eresia condannabile: la manipolazione di un passato per travestire le nostre lotte ideologiche, teologiche, o le nostre ansie e angosce, o per stabilire chi sa quale catena causale che giustifichi le nostre attuali decisioni. In definitiva, trasformare i morti in macchiette al servizio dei nostri discorsi.
Conservare ha sempre qualcosa di eretico. Il movimento che mette in atto la traditio non dissolve questa ambiguità. Si consegna qualcosa a qualcuno, ma in quel passaggio si compie anche un tradimento. Ciò che passa di mano in mano non trascina, necessariamente, l’occhio costruttore, il patrimonio concettuale di cui faceva parte o la struttura ove si collocava. Il restauratore ha la possibilità di capire quanto altera con il suo operare ciò che riceve, mentre smonta e rimonta un manufatto. Eretico anche lui, come lo storico, che non tramanda ciò che era, ma allo stesso tempo si dissocia dall’inganno di restituire qualcosa al presente. Nondimeno, qualcosa si tramanda che potrà essere sottoposta ad altri sguardi e considerazioni e genererà nuove comunicazioni. Questa possibilità ci aiuterà a descrivere, al di là di categorie come continuità o discontinuità che non sono altro che osservazioni, l’evoluzione di un sistema sociale e intravedere i suoi rischi e le sue possibilità.