
Quando finirono di percorrere tutte le aule di quel vasto spazio ove le umane vite erano condotte, Giovanni Apostolo e il duca Astolfo uscirono verso il fiume che scorreva impetuoso e torbido, sollevando onde e sabbia. Trovarono quindi quell’anziano, vecchio nel volto, ma snello nelle membra e più veloce del cervo, che nel suo mantello aveva raccolto i nomi di tutti quegli uomini. Una volta arrivato sulle sponde del fiume Lete, scuoteva il manto e lasciava cadere tutte le piastre con i nomi incisi per essere così inghiottite dalla sabbia. Sul fiume si agitavano corvi, avvoltoi e cornacchie che riempivano l’aria di rumori striduli intenti a prendere qualche nome prima che sprofondasse per sempre nelle acque, ma non avevano la forza di tenere nel becco la memoria degna. Solo due splendidi cigni bianchi potevano togliere qualche nome dall’oblio.
Libera parafrasi realizzata da M.Morales del poema Orlando furioso di Ludovico Ariosto, canto CXXXV.
Il secondo numero (1925) della rivista della Pontificia Università Gregoriana Sint Unum dava notizia della posa della prima pietra per la costruzione del nuova sede a Piazza della Pilotta. Il 27 dicembre del 1925 il cardinale Gaetano Bisleti, prefetto dell’allora Congregatio de Seminariis et Studiorum Universitatibus, calava la prima pietra. Attualmente non si riesce a identificare il luogo preciso del suo sotterramento. Una antica foto, della quale oggi resta solo una riproduzione digitale, e qualche dato riportato nella breve notizia di Sint Unum, permettono di ipotizzare almeno la zona dove potrebbe trovarsi: “His lapis positus est ipso loco ubi postea exsurget altare oratorii inferioris in medio aedificio”. L'”oratorio” era previsto nell’Aula Massima, dietro l’immagine di “Gesù Redentore”. Riguardo i costi dei lavori la rivista Sint Unum afferma: “La spesa sarà ingente, supererà di molto i 15 milioni di lire italiane. L’enorme sforzo finanziario ha per fondamento la fiducia nella Provvidenza divina, la necessità e l’importanza dell’opera, la volontà espressa dal Santo Padre, la collaborazione di quanti amano l’Università Gregoriana”.
Da questo momento e fino all’inizio dei lavori il progetto di costruzione si vide modificato in non pochi aspetti. L'”oratorio inferiore” diventerà una cappella più spaziosa che andrà ad occupare l’area che era stata destinata originariamente all’archivio. Di per sé, questi dati non fanno da soli la storia, piuttosto sono le osservazioni su di essi che li fanno “parlare” a partire da determinate distinzioni.


La storia e l’archivio che l’alimenta, servono per ricordare ma anche per dimenticare. Sprazzi di memoria emergono secondo complesse selezioni facendo dimenticare ciò che non è funzionale. L’archivio non è la memoria totale. La memoria totale non esiste, è solo “viva”, dolorosa e inutile, in Funes il memorioso, figlio del genio fantastico di Jorge Luis Borges.
Il testo biblico ricorda l’importanza simbolica della pietra angolare: «Ecco, io ho posto come fondamento in Sion una pietra, una pietra provata, una pietra angolare preziosa, un fondamento solido; chi confiderà in essa non avrà fretta di fuggire» (Is. 28, 16). Posata nel profondo è “fondamento solido” e motivo di sicurezza. Dimenticata e ignota, agisce. La latenza pone al riparo le decisioni strutturali delle istituzioni o delle organizzazioni, per evitare così che si abbiano delle variazioni o che si possano muovere delle critiche verso di esse. D’altronde, la produzione di consenso ha bisogno di non aumentare la complessità che implicherebbe il rischio di far crescere il dissenso. Inutile l’urlo dello storico, voce che clama nel deserto, che si impegnasse in rivelare latenze se non cambia la struttura che opera precisamente grazie a quella latenza. Parlare di ció che è represso non vuol dire necessariamente guarire. Il decisore trema quando l’archivio, che è una selezione di determinate informazioni, si apre nella sua frammentarietà e lancia timidi rigurgiti del passato. Il passato deve passare, eventualmente il veni foras che ogni tanto squarcerà il buio dell’archivio sarà destinato ad alcuni documenti, prima che il silenzio cali nuovamente su di essi.
In questa seconda modernità, se si continuasse a postulare una storia che ha come obiettivo insegnare qualcosa a qualcuno, si dovrebbe limitare a ripetere quello che il discepolo si aspetta, l’allievo fornirebbe al maestro l’archivio. L’antico topos che presenta alla storia come mater et magistra, limitato e discusso durante secoli, ormai non trova un recinto comune per risuonare. Se il discorso storiografico abbandonasse questa pretesa magisteriale si aprirebbero altre alternative, che comporterebbero dei rischi ma anche delle opportunità.
Per esempio, la ricerca storica potrebbe dedicarsi non a descrivere il passato in quanto tale ma le osservazioni che ci arrivano dal passato. Ma questa operazione non si limiterebbe ad essere solo storiografica, starebbe riconoscendo un tratto peculiare del nostro sistema sociale: cercare e conoscere ciò che è latente. L’ambito di riflessione e di pratica psicoanalitica sono un esempio di questa modalità. Questa operazione ricorsiva, a sua volta denota che la ontologia non è una forma plausibile per affrontare il mondo: il nostro spasmodico desiderio, sempre disatteso, di “punti fermi”, di certezze, di “pietre miliari” o “angolari” (per stare sul nostro tema) ci parla di enormi mutamenti riguardo al nostro stare al mondo. A noi ci è dato osservare complessità e contingenza. La conoscenza della latenza non fa riferimento a un mistero nascosto nelle cose, del quale il fenomeno religioso sin dalla antichità si prendeva carico, ma innanzitutto si rivolge a se stessa. La conoscenza, quando conosce, lo fa a partire da qualcosa di previo. Il reale viene considerato a partire da una latenza.
Il mestiere della storia in questa seconda modernità sarà quello di osservare la catena delle osservazioni e dei suoi rispettivi punti ciechi (latenti) a partire dai quali si è stabilita. Questa osservazione dovrà riconoscere la sua propria latenza che la rende non omnisciente, come non lo è nemmeno il decisore, anche se fa finta di esserlo per poter decidere. Così ridisegnato, il compito della storia potrebbe sembrare più modesto riguardo a quello della storia madre e maestra, ma al tempo stesso potrebbe essere più preciso: prescindendo dallo stabilire una catena causale come garanzia di intelligibilità, che presupporrebbe comunque un punto di osservazione per essere costituita, potrebbe segnare le successive soluzioni messe in atto dinanzi ai problemi e alle crisi. Descrivere in che modo ciò che sembrava improbable diviene probabile. Vale a dire, come siano mutate le latenze che permettevano certe osservazioni, come siano cambiate le semantiche che guidavano le azioni e i discorsi. Potrebbe questo essere un aiuto per individuare nuove potenzialità e minacce.
Adesso lo sappiamo, la storia potrebbe non essere andata così, ma a Piazza della Pilotta campeggia il possente edificio della Gregoriana, così come davanti al ricercatore si trova il documento con la sua ineludibile materialità. Una certa evoluzione ci raggiunge; essa influenza alcuni sviluppi evolutivi e ne limita altri. Quasi per caso, due cigni bianchi riscattano dall’oblio, un nome, un evento, una data. Queste piastre costruiranno una serie di narrazioni mentre l’operosità degli uomini alza alcuni edifici e ne abbatte altri. Lo storico potrà essere testimone di questa catena di osservazioni per scrivere, a sua volta, una storia delle storie. Tracciare le differenze, indicare il punto di vista, la pietra sotterrata, che ha permesso il fluire della storia, vedere quello che chi osserva non può osservare.

