Sorella amatissima.
Ho inteso per lettere del Sig.r Tommaso [Bellarmino] che mi havete scritto, et che non havete avuta risposta. Sappiate certo che non ho havuto la lettera perché havrei risposto subbito come fo con tutti gl’altri. Desidero che di questa promotione ringratiate Iddio autor di ogni bene, ma non stimiate queste cose humane e temporali più di quello che sono, perché alla fine sono vapori che passano in un tratto, né ci è altro vero bene che l’eterno. In questo principio sono tanto occupato che non ho tempo di respirare; però sono così breve, massime che ho voluto scrivervi di mia mano acciò vediate che non mi sono scordato dell’affetto che vi devo. Se mi volete bene, come spero, pregate Dio per me acciò quest’ombra di honore non mi impedisca la gloria del paradiso, e Dio accresca in voi ogni contento. Di Roma li 25 di Marzo 1599.
Vostro fratello amorevole
Roberto Card. Bellarmino.1
La lettera di Roberto Bellarmino a sua sorella Camilla rivela alcuni tratti dai quali è possibile stabilire le distinzioni con cui il tempo era allora percepito e permette de seguire le sue successive e inaspettate evoluzioni.
Camilla Bellarmino si congratula con suo fratello per essere stato creato cardinale (3 marzo 1599), ma si dispiace di non aver ancora ricevuto alcun cenno di risposta. Potremmo stimare che questo scambio tra Camilla e il fratello cardinale si sia verificato nell’arco di due settimane. Meno di un secolo prima, una comunicazione così accelerata, nella quale la velocità appare come un’aspettativa da rispettare, sarebbe stata impensabile.
La distinzione del tempo, nel secolo XVII, oscilla ancora tra un tempo governato dalla Provvidenza: “con il tempo si vedrà”, “dare tempo al tempo”, “con il tempo e con la paglia s’ammaturano le nespole” o “la verità è figlia del tempo”, e una rappresentazione del tempo che man mano si presenta come avaro tiranno: “non ho tempo di farmi la Croce”. In quel secolo arriva ancora l’antico proverbio “dare tempo al tempo”, che rasserenava e affidava l’incertezza dell’uomo a un tempo artefice, trattenendolo dalla fretta di decidere, ma già si contamina con delle urgenze risolutorie che generarono nuovi modi di dire: “chi ha tempo e tempo aspetta, tempo perde”2. A partire di questi ed altri indizi, possiamo considerare che il tempo cominci ad essere osservato come accelerato.
Un’indicazione di questo mutamento può vedersi nel dipinto di Antonio de Pereda, El sueño del caballero (1650). Un angelo si presenta a un cavaliere addormentato con un cartiglio in cui la freccia del tempo è accompagnata dal motto: Aeternae pungit, cito volat et occidit. Stimola di continuo, vola rapidamente e uccide.
Il tempo appare come un vero potere mondano, da non perdere. Il gesuita Juan Eusebio Nieremberg (1595-1658) riscatta un’antica sentenza di San Bernardino da Siena, anche se per lui è ancora qualcosa di “esagerato”: Il tempo di questa vita vale tanto, che San Bernardino disse questa esagerazione: il tempo tanto vale come Dio, perché si guadagna con esso Dio3. Se il testo di Nieremberg si muove ancora nella distinzione di una temporalizzazione tempus/aeternitas, lontana dalla concezione del time is money di Benjamin Franklin, nondimeno potrebbe osservarsi una descrizione preadattativa del tempo nel quale è necessario “guadagnarsi” la vita eterna.

Lo schema di osservazione tempus/aeternitas, che oggi potremmo coniugare come immanenza/trascendenza, dalla prima modernità conoscerà nuove semantizzazioni grazie alle quali diventa sempre più improbabile ricondurre l’orizzonte dell’esperienza verso l’eternità. Si dovrà fare i conti con l’incostanza, con la difficoltà di previsione del futuro, insomma con quello che è il nostro pane quotidiano: il rischio.
Inoltre, la stretta relazione stabilitasi tra tempo/denaro ha segnato la dimensione temporale con i ritmi della competizione. La competizione è andata al di là della celebre equazione tempo/denaro e ha invaso ogni ambito, dal lavoro allo studio, insinuandosi nelle relazioni sociali, che a volte trovano il loro specchio e misura nella quantità di “followers” e “amici”. Per relazionarsi con quella caterva di pollici in su e cuoricini palpitanti, accozzati in fretta e furia, non ci sarà mai abbastanza tempo. Sono sempre meno le persone che potrebbero essere testimoni di un arco lungo della nostra esistenza. Se l’individuo nell’accelerazione sarà descritto, da Baudelaire a W. Benjamin, come un flâneur, che offriva una certa resistenza al passo del tempo, per altri, come per Georg Simmel, l’uomo diventerà un individuo blasé, immerso nel disincanto e nella noia di chi ha già visto tutto.
Ad ogni modo, la distinzione della competizione (agon) non esclude, anzi suppone, la distinzione della fortuna (alea). Ciò implicherà una messa in opera di una competizione tendenzialmente sempre più regolata. Ognuno di questi sforzi regolatori a sua volta vedrà nell’alea un’opportunità per ottenere ciò che il cursus honorum magari aveva precluso. Non è un caso che sul tavolo del cavaliere un mazzo di carte rappresenti il caso.
Se lo schema di osservazione “tempus/aeternitas” spostava continuamente lo sguardo “al di là della siepe”, come ancora cantava Leopardi, l’accelerazione si presenta come il “modus” per vivere il maggior numero di esperienze prima del raggiungimento del limite ultimo: la morte.
La promessa della vita eterna, presente nella comunicazione religiosa, ormai non assicura la società nei suoi diversi sistemi (politica, economia, educazione, diritto, ecc), né tantomeno ferma gli inviti incessanti a realizzare tutte le esperienze possibili prima di raggiungere il limite ultimo, non potendo ormai rimandare verso l’aldilà nessuna aspettativa. Il susseguirsi di queste esperienze, intese come erlebnis4 (vissuto), spesso minaccia la possibilità dell’esperienza intesa come erfahrung, vale a dire, dell’esperienza accumulata, assimilata, interpretata e narrata, che necessariamente richiede tutt’altro che tempo scarso. Le esperienze puntuali, invece, contraddittorie, spesso non richiedono grandi investimenti di temporalità, tutto si gioca nel piano dell’immediatezza. Se l’erlebnis, irripetibile e incommensurabil, poteva costituire il punto di partenza per comprendere, finisce per essere un punto finale.
Il cavaliere addormentato di Pereda si iscrive in un registro moralizzante che corrisponde al tema della vanitas che nel barocco spagnolo si conosceva con il nome di desengaño. L’artista e il suo pubblico condividono lo stesso imperativo: mettere il cuore e gli occhi nelle realtà eterne, il resto sono cose ingannevoli, o come direbbe il Bellarmino, ombre fugaci, vapori. Come in una scena teatrale, il dipinto ci coinvolge come spettatori del theatrum mundi. In quella finzione pittorica si riflette non tanto l’irreale ma una realtà alternativa, vale a dire, raddoppiata. Pensare al mondo, cioè distinguerlo, a partire dal sogno rivelatore dell’angelo intento ad escludere ogni illusione e ambiguità, sarà uno dei modi per affrontare il sogno della vita, come si denomina anche questo dipinto. Comincia ad insinuarsi un rapporto non necessario tra apparenza e realtà, nel quale si dovranno cercare nuove forme di certezza.
Il tema del disinganno arriverà a significare una incapacità cognitiva dell’uomo per riuscire a approdare a una verità e per Gracián si tradurrà nell’arte della prudenza. Un’arte che potrà essere praticata fino a quando il futuro non diventi troppo incerto e la prudenza venga sostituita dal calcolo.
Malgrado il pressante ammonimento dell’angelo, il cavaliere non si desta, come se il messaggio pungente dell’eternità ormai non arrivasse con la stessa forza di una volta. Guardato da noi, il cavaliere potrebbe svegliarsi, stropicciarsi gli occhi e stiracchiarsi per scrollarsi di dosso uno strano sogno e tornare al suo tavolo, pieno delle cose di ogni giorno.
Note
- Questa lettera si trova nella collezione Epistolae Bellarmini Cardinalis della Monumenta Bellarmini a questo il link. ↩︎
- Una versione spagnola di questo detto:”Quien tempo tiene, y tiempo atiende, tiempo viene que se arrepiente.” Proverbiorum trilinguium Collectanea. Latina s. Itala, et Hispana, in luculentam redacta concordantiam latina, itala et Hispana. Neapoli, 1636; p. 49. ↩︎
- La differenza frà il temporale, e l’eterno opera del padre Gio. Eusebio Nieremberg della Compagnia di Giesu. Venezia, 1654; p. 78. ↩︎
- Il termine farà la sua comparsa solo nel XIX secolo. ↩︎
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La lettere diventa un modo per aprirsi al tema del tempo/eternità fino
alla “bulimia di esperienze” a cui assistiamo oggi, le quali annacquano l’eterno
per l’effimero. Mi ha colpito come una documento scritto tra mani consanguinee,
tra fratello e sorella, potesse suscitare tanta tenerezza a distanza di secoli. La lettura permette di comprendere che i documenti d’archivio sono patrimonio non solo per il tipo di scrittura o per le decorazioni ivi conservate ma anche perché testimoniano un modo di vivere il tempo ben diverso da come lo viviamo noi e da cui c’è tanto da imparare.