Sed ego non sum ego


Il seminario organizzato dall’Archivio storico che ha messo al centro il codice FC 1042 contenente il Memoriale di Pietro Fabro, compagno di Ignazio di Loyola, è stata una opportunità per storicizzare un testo del secolo XVI.

Le opinioni che il testo originale sia stato scritto da Fabro in spagnolo sono molto diffuse. In parte, si nutrono dell’idea che la comunicazione orale tra Fabro e alcuni dei suoi compagni (Ignazio di Loyola, Francesco Saverio) fosse stata in spagnolo. Questa idea rinforza l’approccio al Memoriale come se si trattasse del prodotto semplice e diretto di una coscienza individuale. Di conseguenza, nel testo potrebbero riconoscersi sentimenti, pensieri, ecc. Queste teorie, come succede con gran parte delle analisi secondo certi paradigmi della storia culturale, si orientano a concepire il testo partire secondo il concetto di rappresentazione.

Una alternativa a questo approccio epistemico è introdurre il concetto di comunicazione, giacché le descrizioni alle quali si riferisce la storia culturale sono manifestazioni testuali, vale a dire, comunicazioni.


Qui dovremmo superare un concetto ingenuo di comunicazione in quanto trasmissione di un emittente a un ricevente. Comunicazione invece è qui concepita come la sintesi di tre elementi: l’informazione, l’atto del comunicare, e la comprensione della comunicazione (accettare o rifiutare la comunicazione). Questa sintesi selettiva fa apparire la comunicazione come altamente improbabile. Il linguaggio non basta per garantire la comprensione. Di volta in volta il sistema sociale provvederà diversi media per assicurare l’atto di comprendere: la retorica (persuasione), la morale, la verità, il potere, ecc. In questa ottica sarà determinante, per l’analisi testuale, la ricezione da parte di ego (ricevente) e non tanto di alter (emittente). Un testo, in quanto comunicazione, è tale in quanto ricevuto.


L’ipotesi di un originale autografo perso del Memoriale, indica che a partire del XX secolo il testo è stato osservato secondo distinzioni di tipo filologico che non interessavano ai coetanei del Memoriale né ai suoi successivi lettori. Il testo è testimone di una semantica che riflette una determinata struttura sociale che, come ogni processo evolutivo è contrassegnato dall’improbabilità.

Come esempio dei complessi rapporti tra semantica e struttura sociale, si pensi allo slittamento semantico del concetto di copia e di conseguenza di quello di originaleCopia stava a indicare una abbondanza associata normalmente alla quantità di argomenti a disposizione. Quando il concetto devierà per indicare un esemplare identico si modificherà anche il concetto di originale che, invece di indicare l’origine dal quale proviene qualcosa, individuerà ciò che non ha precedenti nel passato. Questo determina una diversa considerazione del concetto di autografia riguardo le opere storiche e letterarie della prima modernità. Nella prima modernità manca ancora la idea di una dignità intrinseca dell’autografo così come succederà nella modernità avanzata.
Dal testo, non è possibile risalire alla mano di chi scrive, né dalla mano alla coscienza dello scrittore. Lo storico considera soltanto le comunicazioni, i documenti, per lui la comunicazione non può avere un alito cattivo. Ma se questo potrebbe ingenuamente far pensare a un limite potrebbe invece essere visto come un guadagno cognoscitivo: La semantica del Memoriale rende pensabile una struttura sociale di tipo gerarchico e la sua evoluzione verso una società funzionalmente differenziata.


L’insistenza dell’autografo presuppone anche una centralità dell’individuo nella comunicazione e permetterebbe la possibilità di accesso (o al meno il desiderio) alla coscienza del suo autore. Il rapporto tra coscienza è comunicazione è, in questa concezione, simmetrico[11].

L’ io che appare nel testo del Memoriale non corrisponde a un io psichico, vale a dire all’operazione di una coscienza individuale ma alla aspettativa con la quale il sistema sociale considerava l’io. L’ io in questione è un io comunicativo che deve essere modellato secondo la legge evangelica prevista per il discepolo il quale deve rinnegare se stesso.


È evidente che ogni processo comunicativo presuppone individui che lo inizino. Ma l’utilizzo che si fa dell’ io corrisponde all’antico concetto di persona[12] e non di individuo. Così N. Luhmann: Ma allora si dovrebbe parlare di persone nel loro vecchio e stretto senso, e non di individui (esseri umani, coscienza, soggetti, ecc.). I nomi e i pronomi utilizzati nella comunicazione non hanno la minima analogia con ciò che indicano. Nessuno è ‘io’. E lo è così poco come la parola mela è una mela[13]. Un testo del De Poenitentiae di Sant’Ambrogio è particolarmente indicativo:

L’uomo rinneghi se stesso e si trasformi completamente, come quel giovane di cui parla la favola. Questi, essendo andato in terra straniera dopo aver avuto una relazione con una prostituta, e quindi essendo ritornato dimentico di quell’amore, incontrò successivamente la vecchia amante la quale, stupita che non le avesse rivolto la parola, pensò di non essere stata riconosciuta. Allora, incontrandolo una seconda volta, gli disse: ‘Sono io’. Ma egli le rispose: ‘Ma io non sono più io’.

Questo testo di Sant’Ambrogio ebbe ancora una ricezione da parte di San Francesco di Sales:Il mutamento del luogo è molto utile per calmare la febbre e l’agitazione causate sia dal dolore che dall’amore. Il ragazzo di cui parla S. Ambrogio nel II libro della Penitenza, ritornò da un lungo viaggio completamente guarito dai futili amori che l’avevano attanagliato prima; alla sciocca amante che, incontrandolo gli disse: Non mi conosci? sono sempre la stessa! Sì, certo, rispose, ma sono io che non sono più lo stesso. La lontananza aveva operato in lui quel felice mutamento.[14]

Questo «io narrativo» è moralizzante e moralizzato, che nel caso del Memoriale, è una morale ancora indistinta dalla religione. In qualche modo, il testo del Memoriale è ancora radicato in un mondo medievale che comunque si evolve velocemente.[15] Questo «io persona» è quello che si ritrova anche in Hobbes:


La parola « persona» è latina; al posto di essa i Greci hanno πρόσωπον che significa il viso, così come «persona» in latino significa il travestimento, l’esterna apparenza dell’uomo, tale quale appare truccato sul palcoscenico, e spesso, in senso più ristretto, quella parte che nascondeva il viso, come la maschera; e dal palcoscenico la parola è stata presa per definire chiunque rappresenti parole ed azioni, sia in tribunale che in teatro. Una persona è dunque lo stesso che un attore, sia sulla scena che nella conversazione comune, e l’atto dell’impersonare è l’agire od il rappresentare sè stesso o gli altri, e si dice che chi rappresenta altri sostiene la parte di quella persona od agisce in suo nome[16].

A partire del testo del Memoriale sarà possibile seguire il transito evolutivo dell’ io poi declinato secondo altre distinzioni come sincerità e dopo ancora dall’ autenticità.[17]


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