Il sonno della ragione


Nell’analizzare le modalità e le potenzialità di una operazione -la digitalizzazione- che sembra essere considerata come “la soluzione”, partirei dal lieve mutamento di significato della parola fruizione.

Jean-Francois Rauzier, Bibliotheque Babel, 2013

Dal latino frui (godere) il termine perde progressivamente gli attributi di appagamento per spostarsi verso qualcosa a cui oggi siamo costantemente chiamati e cioè consumare. Il consumatore ha sugli scaffali del supermercato, o sul sito di una biblioteca digitale, dei prodotti selezionati e confezionati. E questi, come sappiamo, possono essere di maggior o minor qualità e non sempre dalla lettura dei dati presenti sull’imballo siamo in grado di capirlo. Il dato può trasformarsi in informazione e il consumatore può diventare consapevole di ciò che ha nel piatto solo attraverso l’utilizzo di faticosi strumenti. Altrimenti il rischio è di creare grandi discount dell’informazione che appagano un uso compulsivo del bene e passano il pericoloso messaggio di avere a disposizione “tutto il patrimonio artistico a portata di un click”. Se non ci si ferma a pensare a ciò che si vuole ottenere, per chi lo si sta realizzando e si rimane imprigionati nella seduzione esercitata dalle potenzialità tecnologiche del momento (che tra un anno saranno già obsolete e richiederanno un restyling), produrremo straordinarie scatole vuote con il rischio di considerare un successo ricevere un milione di like – un pollice verso l’alto che costa molto poco a chi lo dà e compiace così tanto chi lo riceve sulla nostra pagina culturale. E a questo punto è quanto mai necessario soffermarsi sul soggetto fruitore che diventa idealmente qualunque utente abbia accesso al web. Nel paragrafo Il Portale della Cultura Italiana: utenti, caratteristiche e obiettivi del Documento di sintesi del progetto tecnico-scientifico per il Portale della Cultura Italiana del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, si legge: “Si rivolge sia a utenti non specializzati o solo in parte avvertiti delle attività dell’amministrazione dei beni culturali, sia a vari tipi di utenti specializzati, senza precludere nessuna tipologia: dal turista, al semplice curioso, allo studioso, all’utente commerciale, ai ragazzi di varie fasce scolari, a chi si occupa a diversi livelli di studio, tutela e valorizzazione del patrimonio culturale italiano.” In questo caso sembra diventare superflua la profilazione dell’utente tanto cara a chi fa marketing perché ciò che è chiamato a realizzare chi lavora in ambiti culturali è un “patrimonio fruibile a tutti”. Ma come si concilia questa modalità con le tecnologie del web sempre più strutturate intorno all’utente? Se anche la simple search realizzata in Google si struttura (per un approfondimento: PARISER, E. Il filtro. Quello che internet ci nasconde, 2012) in base alle personali modalità di ricerca e dalle scelte precedentemente fatte dall’utente in una navigazione che diventa sempre più guidata, controllata lo è sempre stata!, è davvero possibile immaginare turisti, o semplici curiosi che in nome di una “cultura accessibile a tutti” raggiungano le straordinarie teche digitali realizzate negli anni grazie ai sostanziosi finanziamenti con cui sono stati approvati, ad esempio, i progetti di digitalizzazione. Proprio perchè vengono definiti progetti culturali (e non ad esempio commerciali o didattici) come finalità di ogni proposta dovremmo avere la ricerca scientifica. Se come ricordato da Salvatore Settis obiettando sulla possibilità, proposta da qualcuno, di liberare i magazzini dei musei dagli oggetti che li vi giacciono per fare cassa “i depositi dei musei […] vanno intesi come laboratori di ricerca e serbatoi di conoscenza” e ancora “la ricerca è il motore, il cuore della tutela” (SETTIS, S. Battaglie senza eroi (2005) p. 306) dovremmo riflettere su quali strumenti stiamo offrendo a questa ampia categoria di utenti perché possano fare una ricerca degna di questo nome. Altrimenti dovremmo dichiarare che l’obiettivo è gettare nel web milioni di dati relativi a opere d’arte e materiale documentario senza uno scopo e un utente predefinito.

Per fare un esempio di come avere molte fonti di informazione non sempre equivalga ad ottenere quelle di cui si ha bisogno è sufficiente ripercorrere la ricerca (disponibile a questo link) che ho fatto qualche tempo fa relativamente all’opera Organum mathematicum del gesuita Gaspar Shott. Inserisco in Google books il titolo preciso dell’opera e la data -1668- di edizione con lo scopo di trovare alcune tavole digitalizzate. A questo punto vorrei sottolineare, e qualsiasi bibliotecario che abbia fatto servizio di reference potrebbe confermarlo, come la maggior parte degli utenti di biblioteca cerchi titoli senza conoscere esattamente il modo in cui sono scritti, la lingua o tanto meno la data di edizione. Credo non sia possibile risalire alla fonte della nota barzelletta che circola nelle biblioteche ma che merita, qui, di essere citata: “Uno studente entra in una biblioteca universitaria e formula la seguente richiesta: Il mio professore mi ha detto che qui avete il libro di quel poeta italiano che parla dell’amore. Il bibliotecario interdetto risponde che con quei dati non potrà soddisfare la sua richiesta. Al che lo studente un po’ spazientito ribatte: ah si è piccolo e con la copertina rossa.” Tornando ai risultati della mia ricerca vorrei fare alcune osservazioni a partire dal principio, per niente scontato, che le cose -nel caso specifico la digitalizzazione- andrebbero fatte bene. Mi sembra inammissibile infatti avere testi illeggibili perché fotografati con le mani sopra, con la macchina fuori fuoco, con carte mancanti o nel caso delle tavole oggetto della mia ricerca escluse dalla scansione o fotografate chiuse. Un lavoro realizzato con questa velocità implica una scarsa attenzione verso l’esemplare e, aggiungerei, verso il lavoro in sé. Ma la problematizzazione di questa pratica non si risolve seguendo protocolli virtuosi. Dobbiamo ad esempio chiederci se ha senso digitalizzare nuovamente un’opera quando questa sia già disponibile sul web o nella biblioteca digitale dell’ente (nel caso dell’Organum ad esempio l’Università complutense di Madrid e la Biblioteca pubblica di Lione hanno digitalizzato -male!- entrambe le copie che possiedono). E’ evidente come l’attenzione non sia rivolta all’esemplare, per il quale sarebbe necessaria una scheda di descrizione che tenga conto degli elementi materiali e estrinseci del documento, ma soltanto al testo contenuto nell’opera. Allora perché se, in questo caso, il Max Planck Institute ha già realizzato un’ottima digitalizzazione non si è utilizzata quella e magari con i soldi e il tempo risparmiati non ci si è dedicati ad altri livelli di descrizione del documento? Inoltre alcune copie (per es. l’esemplare della BncF, Segnatura: CFMAGL. 1.7.187) sono visibilmente restaurate e in questo caso conoscendo la scarsa attenzione degli amministratori ad approvare progetti di restauro mi chiedo se tale operazione sia stata effettuata in occasione della digitalizzazione. Se è, ovviamente, auspicabile restaurare il materiale che si trova in cattivo stato di conservazione, quando la scelta di intervenire è condizionata da un progetto di digitalizzazione potrebbe accadere di escludere documenti in condizioni pessime perchè conservati in fondi non inclusi nel progetto. Infine un’ultima osservazione sulle modalità di ricerca va fatta, osservando che nei progetti più completi accanto alla digitalizzazione vi sono catalogazioni più o meno dettagliate, indicizzazioni dei contenuti o filtri per ricerche esperte. Senza delle linee guida che dichiarino i motivi, i risultati che si vogliono ottenere e gli utenti a cui sono rivolte, certe indicazioni nei cataloghi rischiano di risultare comprensibili solo a chi le ha create e quindi totalmente non fruibili. Nel caso della digitalizzazione dell’Organum mathematicum fatta dalla BncF ad esempio vi è nei “Filtri in base alle caratteristiche della pagina” il filtro “Con cornice segnatura” che a me e ai miei colleghi (tutti utenti specializzati) risulta incomprensibile non facendo riferimento né a pagine con cornice né a pagine con segnatura.

Ad un livello più ampio si potrebbe provare a navigare tra le Digital collections della Library of Congress, una delle biblioteche più grandi al mondo che nella spiaggia del web vale come un granello di sabbia. Dunque le collezioni digitali, riferibili a materiali diversissimi per tipologia (stampati, disegni, video, musica, periodici, manoscritti etc.) e per datazione (interessante come il filtro della data non sia disponibile per raffinare la ricerca), sono 303 e a queste sono stati attribuiti 199 soggetti. Si trovano collezioni che contengono pochi documenti (21 nella collection “Afganistan Web Archive”) e altre che ne contengono più di un milione (1.573.754 nella Collection “Chronicling America”). Immaginando che per un utente curioso tutto possa, potenzialmente, risultare interessante dovremmo prevedere un tempo molto lungo perché possa anche solo scorrere tutte le 303 collezioni e scegliere di aprirne qualcuna, in base ai suoi interessi o anche per una curiosità del momento, per placare la sua sete di cultura. A questo punto va considerato il fattore tempo in un’epoca in cui la velocizzazione dei processi di informazione sta diventando sempre più un valore. Lo dimostra, ad esempio, il cambiamento, visibile in molti siti di enti culturali, di nomenclatura dalla modalità di ricerca “semplice” a “rapida”. Si potrebbe aggiungere che la “ricerca avanzata” ove sia ancora disponibile (nel sito di Europeana – costato intorno ai 150 milioni di euro – non è stata implementata) è normalmente utilizzata da un numero ridottissimo di utenti. Inoltre dovremmo prendere atto del fatto che, molto probabilmente, l’utente non specializzato non avrebbe nemmeno raggiunto il sito della Library of Congress essendo partito dalla ricerca base in Google. E allora quella straordinaria miniera di informazioni per chi è? Mi sembra che la risposta possa essere soltanto una: per chi sa già cosa e dove cercare o per chi conosce la strada per raggiungere il dato, quindi o un utente specializzato (conosce l’oggetto della sua ricerca) o un utente formato (ha gli strumenti per navigare e utilizzare i tools disponibili). Purtroppo l’obiettivo ideale di “non precludere nessuna tipologia” sembra naufragare miseramente di fronte alla intricatissima rete. Questo fenomeno non è affatto nuovo se pensiamo ai pochi eletti che in passato hanno potuto accedere alle collezioni di importanti archivi o biblioteche, la differenza, oggi, è ritenere che poiché la porta della biblioteca non va più varcata fisicamente sia diventata più accessibile. Allo stesso modo l’ipotesi di una biblioteca universale non è un’idea originale da attribuirsi agli inventori di Google books ma ha antecedenti illustri quali, ad esempio, l’erudito svizzero Conrad Gessner che realizzò nel 1545 una sorta di bibliografia universale delle opere in greco, latino ed ebraico. Più recentemente potremmo citare il visionario progetto del Mundaneum di Otlet e La Fontaine.

Come questi illustri esempi (seppur destinati al fallimento) dimostrano, a tante risorse accessibili dovrebbero corrispondere strutture classificatorie dei dati per non perdersi nel mare magnum di tanta conoscenza disponibile. Tanto più strutturato e diversificato sarà lo scheletro che organizza le conoscenze tanto più sarà possibile rispondere alle esigenze di una ricerca con la R maiuscola. E questo implica pensare all’utente che si vuole raggiungere e alle selezioni che si vogliono fare con uno straordinario sforzo per formare chi si vuole diventi il nostro fruitore nell’accezione più arcaica del termine.

Francisco Goya, El sueño de la razón produce monstruos (disegno preparatorio, 1797)

Concludo con un stupefacente disegno preparatorio di Goya. Non lo conoscevo e l’ho trovato sul web cercando l’incisione a me nota. Lo trovo di una grande potenza simbolica come monito perché la battaglia dell’intelligenza ci consenta di non essere sopraffatti dai mostri da noi stessi creati.

Una risposta a "Il sonno della ragione"

  1. Gentile dott.ssa Pedretti, ho letto con interesse le Sue riflessioni che condivido in pieno. La metafora della “biblioteca-supermercato digitale” è pertinente e rispecchia lo stato dell’arte. Ma ormai – lo sappiamo – si ragiona in termini di contabilità degli accessi ai siti: i finanziamenti arrivano solo (o quasi) per i progetti di digitalizzazione. La qualità è secondaria, ma scansionare tutto e per tutti è fondamentale. All’aneddoto dello studente che cercava il libro con la copertina rossa, aggiungo l’esemplificazione (reale) dei miei allievi che pretendono di lavorare alle tesi solo per via telematica, e il libro – come spesso mi si obbietta – è irraggiungibile se non è caricato sul WEB. Con saluti cordiali. AB

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