In una lettera al maestro e confratello Athanasius Kircher, il gesuita Kaspar Schott (1608-1666) fa trapelare tutta la preoccupazione per la sua salute e per la chiusura del Collegio Romano a causa della peste che è ormai arrivata a Roma:
L’ultima lettera di V.R. benché tutta affumata, e mezzo abbruggiata, mi hà recata grand’allegrezza, per la buona nuova della salute e contentezza di V. R.; come all’incontro la trista novella di Lorenzo nostro segretario mi rincresce, benche dalli altra parte mi consoli, perche, come scrive, una peste hà cacciata un’ altra. Adesso non so che mala nuova si racconta, che il Collegio Romano sia serrato. Non posso esprimere con parole, quanto sij sollecito per la salute di V. R., se questo è vero. Prego per amore di Giesù Christo, che subito mi dia raguaglio del suo stato. Io in questo mentre non lasciarò di pregare Iddio, e sua benedetta Madre per lei.
Kaspar Schott a Athanasius Kircher, Würzburg 21 ottobre 1656.
Il ritorno
Ciò che ritorna richiama un’assenza. Il silenzio dei nostri giorni, che serpeggia per le strade, non fa altro che urlare: osserva e comprendi ! Il silenzio ci interpella e allo stesso tempo ci rappresenta, giacché facciamo fatica a dire quello che ci succede. Nel nostro quotidiano, soprattutto quando sembra che gli avvenimenti non ci diano tregua, ci afferriamo al senso di familiarità. La familiarità che stabiliamo innanzi a situazioni nuove, a esperienze inedite, è una forza che ci permette di affrontare il nostro mondo in tutta la sua contingenza, vale a dire, andare incontro alla variabilità delle cose, che possono essere o non essere, o essere in un modo diverso. Osservare il mondo con gli occhiali della familiarità è il presupposto per gettare uno sguardo sereno e perfino un po’ distratto sul reale. Ci semplifichiamo la vita dando per scontate alcune cose. Economia della domanda e dell’osservazione. La distinzione familiare/non familiare aiuta a consolidare la percezione di certezza verso il mondo costruito.
Ma arrivano giorni (e sono già arrivati), in cui lo sguardo sembra aver oltrepassato la siepe che lo precludeva ed è impaurito per quello che vede dall’altro lato della distinzione: il non familiare. Se insistessimo nei luoghi comuni in cui prima ci rifugiavamo, il senso di estraneità potrebbe perfino aumentare. Quando qualcosa di antico ritorna, l’imperativo è comprendere. Solo a partire da questo sforzo sarà possibile riconfigurare lo spazio inaccessibile e sconosciuto, se non altro per renderlo familiare. La fatica non è scontata. Seguendo il motto aristotelico: “Vale di più un verosimile impossibile che un possibile inverosimile”. È più persuasivo affermare ciò che l’uditorio, i lettori, i telespettatori o i follower ritengono possibile, anche se è scientificamente impossibile, piuttosto che cercare di dimostrare possibile ciò che non è ritenuto tale da una certa “cultura di massa”. Questo post è totalmente controintuitivo.
L’indagine

Ma per ritornare al nostro argomento. Anno 1656. Quando a Napoli, città assai popolosa, sorse un’atrocissima peste, sconosciuta a tutti i secoli, trecentomila persone affrontarono una strage orrenda e straordinaria nell’arco di sei mesi, non so per quale destino, oppure perché si è verificata una sconsiderata necessità di commercio – come anche nella stessa Roma non si è mai verificato, e se il disastro Napolitano è molto meno grave, da quel traffico clandestino si nutre una epidemia contagiosa a causa dei seminari pieni; con il che ne è derivata una propaggine senza dubbio più funesta di quella che annualmente, ed oltre, ne subisce il flagello – se non verrà tempestivamente soppressa dalla pietà, prudenza ed incredibile cura e sollecitudine del Nostro Signore Alessandro VII.

Allo stato delle cose, quando ognuno è afflitto da numerose immagini di morte, si richiedono non senza ansia e sollecitudine, rimedi futuri per la salute, contro un tale atroce male; se alcuni, afflitti dal morbo pestifero, sono tormentati da vari e diversi sintomi, come sembra ritenere l’intera classe medica, mentre vi sono consultazioni condotte tra i medici, per quanto esso sia tenue, si reclama insistentemente il mio giudizio sulla vera causa della peste. Dunque, per volontà di coloro che me lo comandano, e per giusta supplica, mi adoperai più estesamente perché il male fosse contrastato, così nell’orrido silenzio di una mesta Roma, mentre l’accesso al Collegio Romano è interdetto ad ognuno, messi di parte i miei soliti argomenti letterari, recluso in strettissima solitudine, fui costretto ad elaborare con zelante ed opportuno sforzo, quella che già concepii esser la natura dell’origine della peste.
Il proemio del piccolo trattato di Athanasius Kircher sulla peste sembra un invito a pensare che quello è come questo. La atrocissima peste, la strage orrenda, l’orrido silenzio di una mesta Roma, l’accesso al Collegio Romano è interdetto ad ognuno […] per qualcuno in queste descrizioni potrebbero riecheggiare discorsi contemporanei. Il sentiero largo dell’analogia conduce direttamente alla familiarità. Ma questa strada non ci porta lontano, o meglio, il senso di familiarità deve sempre essere ricostruito. Se quella sciagura è simile alla nostra rischiamo di non osservare pertinentemente le distinzioni a partire dalle quali la pestilenza è stata osservata e quali siano le differenze con l’osservazione di una pandemia ai tempi nostri. Le differenze che andremo a considerare non si annidano principalmente nel linguaggio barocco o nell’insolito vestito del “Dottore Becco di Roma” (“Doktor Schnabel von Rom”) così come appare nell’incisione (1656) di Paul Fürst (1608-1666) e così come lo descrive una poesia del XVII secolo:
As may be seen on picture here,
In Rome the doctors do appear,
When to their patients they are called,
In places by the plague appalled,
Their hats and cloaks, of fashion new,
Are made of oilcloth, dark of hue,
Their caps with glasses are designed,
Their bills with antidotes all lined,
That foulsome air may do no harm,
Nor cause the doctor man alarm,
The staff in hand must serve to show
Their noble trade where’er they go.
Per quanto potremmo essere sedotti da quelle semantiche barocche non riusciremmo mai a riproporre la struttura nella quale operavano. Quando intravediamo che le cose di ieri furono percepite e pensate a partire da un a priori diverso dal nostro, in quel momento sorge l’inquietudine, ciò che pensavamo fosse conosciuto diventa perturbante. La storia parla di un mondo eterogeneo, di un mondo scomparso che non era come il nostro. Noi non siamo loro. Precisamente tracciando la differenza le cose si rendono pensabili, non solo quelle passate ma anche quelle presenti. La differenza con il passato è il primo passo per capire ciò che accade.
L’orrido silenzio

Il silenzio ci mette dinanzi all’incertezza. Il vuoto che genera deve essere riempito. Nell’orrido silenzio Kircher s’interroga, secondo il testo, sull’origine della peste. Sotto la superficie che abitavano quegli uomini fremeva un magma in cui non era possibile distinguere tra società e religione. Ogni osservazione proveniva da quella indifferenziazione che reggeva il loro mondo. Ricercare il colpevole della pestilenza era ripetere una verità. Da questa inchiesta non ci si poteva aspettare novità alcuna. La sola iterazione della verità la rendeva “vera” e autorevole, e lo era perché le auctoritas l’avevano affermata per prime. Se la ripetizione per noi è sinonimo di noia, per loro era segno di certezza.
Per il trattato di Kircher, la peste è flagellum et sagitta Dei ob peccata hominibus immissa. Si ripetono in questo modo i giorni di Noè, nei quali Dio esaurisce la sua pazienza e dà il via a un nuovo inizio. La creazione andata a male pesa sulle spalle dell’uomo che l’ha contaminata con il peccato. La pestilenza evoca l’antica lotta tra il Bene e il Male. Sulla testa degli uomini che patiscono la sciagura terrena, si svolge la battaglia tra Lucifero e San Michele, come ricorda la statua dell’Arcangelo su Castel Sant’Angelo. Le vicende di quella figura potrebbero disegnare i tratti di una storia evolutiva riguardo la percezione delle pestilenze: l’originale di legno fu sostituito da un angelo di marmo, poi distrutto durante un assedio alla città nel 1379, al suo posto fu collocato un San Michele di marmo con delle ali in bronzo (1453). Quando un fulmine che fece esplodere la santabarbara del Castello la mandò in frantumi, la statua di marmo fu rimpiazzata da una di bronzo dorato, poi fusa (1527) per fare dei cannoni. Il vuoto fu riempito da un angelo realizzato da Raffaello da Montelupo (1544), a sua volta sostituito dall’opera di Peter Anton von Verschaffelt (1753). La statua che vediamo oggi è una copia in acciaio e titanio (1986).
A partire da un determinato momento, la semantica utilizzata per costruire la realtà, non basta più per trovare l’untore ultimo. Gli “untori”, così chiamati ai tempi della peste manzoniana (1636), coloro che avevano unto persone, cose, maniglie delle porte e panche delle chiese con unguenti malefici, avevano un capo indiscusso: il demonio, l’untore per eccellenza. Il flagello della peste, come ci insegna la storia della possessione delle orsoline a Loudun (1632)1, apre la strada al diavolo e non potendo bruciare colui che brucia in eterno, si dovrà bruciare un suo ministro, colui che ha introdotto il male nel convento: Urban Grandier, il parroco della chiesa di San Pietro. In quel teatro delle verità la morte di Grandier sarà per tutti un punto fermo. Come se l’incertezza e il buio di quei giorni si potessero rasserenare con la luce del rogo. Nella grande lezione della possessione di Loudun impariamo che le possedute, a differenza dello stregone, hanno una responsabilità limitata: sono state forzate, violentate. Come le mistiche, che stanno agli antipodi, non abitano più se stesse ma sono abitate da qualcun altro. Il Diavolo arriva così ad alleggerire il peso della colpa. La ridondanza di questa antica argomentazione – di stampo biblico – del testo kircheriano, conoscerà una crescente variabilità, finché la peste – o meglio la comunicazione sulla peste – si scinderà quasi totalmente dalle sue dimensioni punitive e diaboliche. Nella nostra modernità, la ricerca del “colpevole” della sciagura si focalizza sul sistema economico, o sul sistema politico, o su quello del diritto, benché, riconoscendo l’alta complessità del fenomeno osservato, si dovrebbe ammettere che la sua conoscenza è necessariamente limitata.

Ma nell’osservazione ripetuta della prima modernità comincia a insinuarsi la novità. Secondo il testo dello Scrutinium, Kircher non solo osserva il mondo con gli occhiali delle distinzioni allora possibili, ma avvicina il suo occhio alla lente di un microscopio. Da questo gesto sorgeranno nuove distinzioni che porteranno necessariamente a nuove conoscenze e nuove incertezze. Il gesto di Kircher si inserisce in una certa tradizione, gesuitica e non solo, nella quale si cercavano anche delle “cause naturali” della peste e pertanto dei rimedi. Così l’opera del gesuita Antonio Possevino Cause et rimedii della peste et d’altre infermità (1576) indicherà, tra le cause naturali, la mala qualità di humori, o la corruttione dell’aria.
Sotto una lente nuova
Lo Scrutinium del Kircher si iscrive in una successione di opere che si presentano come un’ibridazione tra ermetismo e medicina seicentesca. Kircher può chinarsi sul suo microscopio perché il suo gesto resta ancora incorniciato in una catena causale, in virtù della quale non si realizza, fino a questo momento, una distinzione tra osservazione scientifica e osservazione religiosa. Le osservazioni kircheriane non lasciano da parte né la provvidenza di Dio, che invia la peste agli uomini, né – tra le “cause naturali” di propagazione delle epidemie – quella che era la più consolidata: le esalazioni pestifere che provengono dalla profondità della terra e contaminano l’aria che gli uomini respirano. Ma c’era anche, secondo il suo trattato, un contagio per contatto con cose in putrefazione. Nelle cose e negli animali imputriditi si generano dei piccoli vermi (vermiculi) che infestano l’uomo: tam exigui, tam tenues et subtiles ut omnes sensus captum eludant, nec non nisi exquisitisimo smicroscopio sub sensum cadant. Lo sguardo, attraverso la lente del microscopio o del cannocchiale, invade parte della sacralità del mondo, così com’era stato concepito. Zone che prima si trovavano al riparo e facevano parte di un segreto, talvolta enunciato in modo ermetico da alcuni iniziati; luoghi abitati dal mistero (μύω=chiudo), che invitava a chiudere gli occhi e la bocca, ora cominciano ad essere circoscritti da parole. In qualche modo, quello che si consegnava al segreto e al mistero adesso emerge come paradosso: È una questione grande e che hà del paradosso il ricercare se la peste faccia più male che bene. Qual bene può egli mai recare un carbone, che brucia l’universo, quella peste crudele, che mette a saccomanno le città?. Così si interrogava il gesuita Etienne Binet nel suo libro: Sovrani ed efficaci rimedi contro la peste [stampato in italiano a causa della pestilenza del 1656]. Tutte le sue risposte al perché della pestilenza sono di tipo moralizzante. La peste è occasione di bene perché l’uomo si esercita nella virtù e in definitiva il flagello dell’epidemia non deve avere una giustificazione giacché Dio non deve mai giustificarsi. Come si può supporre, finché l’appello al segreto funziona il consenso si mantiene, ma a mano a mano che le conoscenze aumentano, aumenteranno di pari passo le opinioni e i dissensi.
L’inosservabilità di Dio, vale a dire la sua unità, resta ancora salda. Quella unità misteriosa potrà assorbire ancora per un po’ ogni eccesso, ogni contraddizione e ogni complessità potranno essere attribuite al “mistero”. L’osservazione religiosa permette che ciò che non è familiare possa essere assorbito da ció che è familiare, pur rimanendo sconosciuto. Ciò che talvolta la nostra modernità avanzata identifica come “rinascita della religione” potrebbe essere pensato in questi termini. Secoli dopo Kircher, sarà la scienza stessa a tracciare i confini del conoscibile: al di là della velocità della luce comincerebbe l’impossibilità della nostra conoscenza del mondo fisico. L’incomprensione di ciò che il geniale gesuita osservava, non solo ci mette fuori strada per compiere un’operazione storiografica controllata da una vigorosa concettualizzazione, e questa sarebbe la perdita minore, ma soprattutto ci impedisce di riflettere sui tempi nostri, di cogliere la loro complessità. Metterci all’ombra delle argomentazioni di Kircher, ricalcare i suoi passi, seguire le sue credenze e devozioni, imitare i suoi gesti, assecondare le sue ipotesi sulle cause della peste non solo è qualcosa di improbabile, ma ci distrae proprio nel momento in cui ci viene richiesta la maggiore attenzione, una grande cura, la cura che i greci chiamavano epimeleia. Nuove formule di contingenza sorgeranno per affrontare ciò che è indeterminato. Al di là della realtà duplicata e rumorosa dei media sempre assetati di novità, il silenzio e il suo vuoto possono presentarsi a noi come un’opportunità per affrontare tanta complessità, cercando di evitare semplificazioni inconsistenti o scorciatoie cognitive.
1 Riguardo la possessione di Loudun si veda l’opera fondamentale di Michel de Certeau, La possession de Loudun; Collection Folio histoire (n° 139), Gallimard, 2005.
Grazie ! Grazie ! Leggo oggi stesso !
El tema viene muy al caso en esta situación de pandemia, al tratar de la peste en Nápoles a mediados del XVII. Es una discusión importante sobre lo que significa observar y comprender un fenómeno lejano de nosotros, ocurrido en un contexto que queremos descifrar.
Sin duda una buena reflexión que ilumina el espacio histórico de Athanasius Kircher, con un texto suyo y otros escritos e imágenes de la misma época. Nos invita a pensar…
Fantastico, un opportuno silenzio in mezzo a tanto chiasso.
Il giorno dom 29 mar 2020 alle 08:34 Archives of Pontifical Gregorian
Ma…il silenzio può essere gravido di cattive notizie, se ad essere muta è la parola della scienza.