1. Naturalmente, un registro.
Nel Lexicon totius latinitatis Egidio Forcellini definisce così la parola latina regesta (-orum) – derivante dal participio presente del verbo regero, letteralmente ‘riportare’: “sunt res multae in unum collectae, et in tabulas et commentarios relatae, quae vulgo corrupte registra dicunt, registri”. Il passaggio dalle ‘tante cose’ a una sola che però le contiene tutte, ricorda il principio espresso in molti degli avvisi al lettore che precedono le bibliothecae a stampa pubblicate a partire dalla metà del XVI secolo: gli autori di queste compilazioni aspiravano infatti a riprodurre in un solo volume il contenuto degli scaffali delle biblioteche fisiche, conferendogli un ordinamento razionale e consentendo così al lettore di orientarsi all’interno di una produzione libraria che l’avvento della tipografia aveva amplificato a dismisura. Sia la definizione di Forcellini, sia il principio alla base della nuova disciplina bibliografica, sono testimonianza di quella ineliminabile necessità presente nella civiltà moderna di tentare di ridurre la complessità del mondo attraverso operazioni di selezione e organizzazione dell’informazione considerate più gestibili.
Gli archivi conservano oggi un’immensa quantità di registri: di atti, prima di tutto, ma anche registri di lettere, di nati, di morti, di matrimoni, di spese, di studenti e l’elenco potrebbe andare avanti. Per lo storico il registro è allo stesso tempo croce e delizia: croce, perché gestire l’informazione contenuta nei registri può spesso trasformarsi in un’impresa senza fine – basti pensare ai milioni di dati contenuti nei registri parrocchiali; delizia, poiché il registro, forse più di altri documenti, ci dà l’illusione di riuscire realmente a entrare in contatto col passato, scoprendo ad esempio che in un determinato giorno due persone hanno contratto matrimonio o quali merci sono passate per una dogana. Come ogni documento però, anche il registro porta con sé le caratteristiche della società che lo ha prodotto, non solo in relazione al suo contenuto principale ma anche alle modalità attraverso cui l’informazione che descrive quel contenuto è stata selezionata e strutturata. In quanto documento il registro è dunque innanzitutto testimonianza di un contesto sociale, le cui dinamiche possono essere meglio comprese grazie all’analisi del suo contenuto informativo.
Il “Registro delle entrate ed uscite della biblioteca del Collegio Romano” conservato presso il nostro Archivio storico con segnatura Ms. 2805[1], può dunque essere letto come prodotto di un contesto sociale, in particolare di quello dei gesuiti del Collegio Romano. Iniziato nel 1747 da P. Pietro Lazzari SJ, appena nominato bibliotecario, il registro va avanti fino alla soppressione della Compagnia del 1773; verrà poi continuato dai nuovi bibliotecari a partire dal 1824, quando il Collegio Romano venne restituito ai gesuiti, e fino al 1873, anno della definitiva requisizione dell’edificio da parte del neonato Stato italiano. Nel registro si trovano principalmente note di acquisto di libri, aspetto certamente interessante per chi si occupa della storia della biblioteca del Collegio Romano e in generale della storia del commercio librario. Tuttavia esso è una fonte preziosa per ricostruire anche tutti gli altri aspetti della gestione della biblioteca e del contesto in cui essa operava.
La struttura di questo documento segue l’impostazione comune a molti altri registri di spese: la pagina è occupata in gran parte dalle singole voci di entrata e di uscita e sulla destra viene indicato l’importo delle operazioni. Alla fine di ogni pagina è presente una somma parziale degli importi che viene poi riportata nella facciata successiva. Le spese sono inserite in ordine cronologico e sono suddivise per anno, tuttavia nella parte settecentesca del registro raramente sono indicate date complete di giorno e mese, quasi sempre presenti invece a partire dal 1824. All’inizio delle registrazioni di ogni anno veniva apposta una breve nota del bibliotecario in cui si attestava il ricevimento da parte del rettore o del procuratore del collegio del fondo di spesa annuale, che aveva un importo di 200 scudi romani; alla fine di ogni anno è presente inoltre la sottoscrizione del rettore che certificava la presa visione delle spese effettuate durante l’anno. Già questa pratica potrebbe essere oggetto di un’osservazione più approfondita, dato che con l’occasione di rivedere il bilancio, il rettore aveva anche modo di verificare se il bibliotecario avesse acquistato libri consoni per gli utenti di una biblioteca di un ordine religioso: il registro poteva dunque trasformarsi in uno strumento di disciplinamento, utile per tenere sotto controllo le potenziali letture dei padri.
Si è già detto su questo blog delle registrazioni relative allo stato di conservazione dei volumi, un altro aspetto del lavoro del bibliotecario la cui analisi può tornare utile ancora oggi, come è avvenuto in occasione di un intervento di restauro che ha coinvolto alcuni codici dell’Archivio un tempo conservati nella biblioteca del Collegio e ‘restaurati’ per la prima volta proprio sotto la direzione di Pietro Lazzari. Alle spese di conservazione – tra le quali rientravano legature, ma anche spolveratura dei libri o l’acquisto di materiali come spazzole o coperte per gli strumenti scientifici (c. 9r) – già dalla fine del ‘600 dovevano essere destinati 25 scudi sui 200 messi a disposizione del bibliotecario, proporzione che stando ai dati presenti nel registro non venne però sempre rispettata.
Il registro testimonia anche le spese sostenute dal bibliotecario per la pubblicazione di libri il cui contenuto era fortemente legato ai fondi della biblioteca. Così ad esempio negli anni che vanno dal 1750 al 1759, per ordine del superiore della provincia vennero consegnati a Lazzari solo 150 scudi dei 200 solitamente assegnati, poiché 50 servivano «per sodisfare al P. Azevedo che per la stampa di Perpignano aveva dato trecento scudi», riferimento all’edizione Petri Ioannis Perpiniani Valentini e Societate Iesu Opera, stampata in tre volumi nel 1749 dai tipografi romani Niccolò e Marco Pagliarini e seguiti da un quarto volume De vita et scriptis Petris Ioannis Perpinaini diatriba composto da Lazzari, il quale per questo lavoro fece un largo uso di manoscritti conservati al Collegio Romano.
2. 1824: la biblioteca volta pagina
Uno degli elementi più sorprendenti di questo registro è la continuità che si riscontra nelle ultime registrazioni del 1773 e le prime del 1824: nessuna nota viene apposta dal nuovo bibliotecario, il quale si limita a voltare pagina (c. 26r-v), continuando la compilazione del registro come se non fossero passati cinquant’anni dall’ultima volta che qualcuno vi avesse messo mano. Sorprende poiché non solo non si fa menzione della soppressione della Compagnia, ma anche perché il registro era stato conservato fino a quel momento nonostante in mezzo secolo non fosse più stato utilizzato, un caso questo molto raro per l’epoca e ancora più curioso se si considera la sorte che toccò invece ai documenti di molti archivi e biblioteche dei gesuiti. Forse la scelta del nuovo bibliotecario voleva in qualche modo esorcizzare la traumatica esperienza della soppressione dell’ordine creando un’illusione di continuità con l’attività dei padri dell’antica Compagnia.
APUG, Ms. 2805, c. 26r. APUG, Ms. 2805, c. 26v.
A ogni modo, dopo il rientro dei gesuiti nel collegio, per qualche anno il registro venne usato in maniera discontinua e solo dal 1832 con la prefettura di P. Giuseppe Marchi SJ esso riprese piena funzione. Lo stesso bibliotecario modificò leggermente il metodo di registrazione delle spese, non facendole più rientrare in un unico elenco annuale, ma suddividendole secondo la tipologia: si hanno così elenchi di spese per «Associazioni» (cc. 27v-28r), per «acquisto di libri fuori d’associazione» (cc. 29v-30r), «per rilegature e legature di libri» (c. 30v), tutte registrate per gli anni 1832-1836; dal maggio 1836 questo metodo venne però abbandonato e si tornò alla vecchia impostazione. Gli acquisti di Marchi si caratterizzarono per una sostanziale equivalenza tra libri correnti ed edizioni antiche o di pregio, con preferenza in quest’ultimo caso per la tipografia aldina: tra il gennaio 1833 e il maggio 1834 furono undici le spese di Marchi riguardanti libri dei Manuzio – dodici se contiamo l’acquisto delle Annales di Renouard (c. 29r) – per un totale di 49 volumi più «parecchi volumi Aldini avuti dal Collegio di Spoleto» e «alcuni libri d’Aldo avuti dal Collegio d’Orvieto in più volte» (c. 29r). Successivamente il collezionismo di aldine caratterizzò anche l’attività di un altro bibliotecario, P. Francesco Saverio Patrizi SJ, prefetto dal 1853: in entrambi i casi questo fenomeno meriterebbe un’analisi più approfondita dato che la documentazione in proposito è molto ricca e che la collezione scaturita da questa attività si conserva tutt’oggi ancora integra nel fondo Aldine A della Biblioteca Apostolica Vaticana.
Più si va avanti nel tempo, più le registrazioni segnate dai bibliotecari aumentano numericamente e in precisione: il registro si trasforma in una sorta di diario intimo della biblioteca, dove i bibliotecari si fanno portavoce dei fatti che la riguardano, talvolta del tutto inaspettati, come quando l’8 luglio del 1844 venne registrata un’entrata di 20 scudi «venuti dal cielo, cioè trovati nascosti in biblioteca per dimenticanza del precedente bibliotecario» (c. 42v). Non solo eventi positivi, naturalmente: il 2 giugno 1856 il bibliotecario Patrizi sborsò uno scudo per la «mancia al Maresciallo dei Carabinieri per la impertinenza di un Reverendo che nascose alcuni libri, per cui si sospettò essere stati rubati, e vennero perquisiti dalla Polizia; o, come altri dicono, il ladro, saputo di tali perquisizioni, per mezzo di confessione li fece ricomparire al posto loro» (c. 84v).
Il registro diventa infine anche testimonianza dei rapporti personali dei gesuiti che risiedevano nel Collegio. Nell’ultima pagina relativa all’amministrazione di Giuseppe Marchi (c. 33v), un anonimo gesuita scrisse che «il merito di questo Bibliotecario è la raccolta bellissima delle Aldine edizioni, e dell’aumento di Manoscritti ed altre opere scelte con criterio». A questa nota ne segue un’altra di diversa mano che specifica: «L’amicizia fa sì che si alteri la verità. Il P. Marchi raccolse tutte le aldine che erano già in biblioteca, ma sparse qua e là, e collocolle tutte e sole in una parte delle scanzie (i.e.) della seconda Stanza, aumentò con nuovi acquisti questa raccolta, e ne completò molti esemplari imperfetti. Di manoscritti non fece un acquisto considerevole». Una resa dei conti, non relativa all’amministrazione economica della biblioteca ma al rapporto personale tra due padri che nonostante l’apparente estraneità dal contesto nominalmente contabile di questo documento riesce lo stesso a trovare posto nel registro. Naturalmente.
[1] L’esistenza di questo registro è stata segnalata per la prima volta da Alfredo Serrai in La Bibliotheca Secreta del Collegio Romano, «Il bibliotecario», 2009, 2/3, pp. 17-50.