
A partire dal dato materiale offerto dai documenti d’archivio si possono stabilire non solo i problemi di conservazione dei suoi fondi ma si può aprire anche una considerazione riguardo la salute dell’istituzione che ne è depositaria.
Come ricorda Lydia Flem: le cose portano con sé le orme degli uomini che le hanno possedute ed adoperate. (Raccomando vivamente la lettura del suo libro: Come ho svuotato la casa dei miei genitori, 2005) Mi permetto di aggiungere, per il caso degli archivi e delle biblioteche: le cose portano anche le tracce dell’istituzione che le conserva. Talvolta l’istituzione conservatrice giustifica il degrado dei fondi con la mancanza di risorse. Questa giustificazione si dimostra quanto meno fallace nel caso in cui l’istituzione depositaria dei fondi realizzi altre opzioni e indirizzi sistematicamente le risorse economiche ad altre priorità. Come si possono coniugare certe posizioni retoriche riguardo l’importanza del patrimonio storico con la mancata pianificazione economica che traduca in effettive operazioni di conservazione i proclami carichi di orgoglio su i documenti antichi come parte essenziale della memoria istituzionale?
Spesso l’istituzione depositaria di materiale antico tende a giustificarsi dichiarando la scarsità delle risorse economiche capaci di far fronte alle spese di preservazione e di conservazione.
Dietro questa scusa banale si nascondono atteggiamenti complessi delle istituzioni che, ricche di passato, vivono in modo conflittuale la carica simbolica rappresentata dai fondi antichi. Perché può serpeggiare, sotto questi discorsi, gonfi della retorica istituzionale e dei piagnistei degli amministratori, un velato progetto di distruzione? Perché questi antichi manufatti, che testimoniano impegno, progettualità, tempo lungo, diventano testimoni scomodi, da sopprimere, in un presente dove spesso si declamano e si cercano le origini o si loda la memoria? Forse perché il nostro tempo è il tempo del presentismo, secondo François Hartog [Régimes d’historicité. Présentisme et expériences du temps, Paris, Le Seuil, 2002], nel quale si sopporta mal volentieri la narrazione storica, perché si è installata una diffusa incredulità riguardo alla storia e le commemorazioni acritiche hanno preso il sopravvento. Perché abbiamo una percezione del futuro che genera incertezza, perché non si riesce a riconoscere più tra questi codici, se non con grande fatica, la speranza e la forza che li animava.
Spesso l’istituzione depositaria di materiale antico tende a giustificarsi dichiarando la scarsità delle risorse economiche capaci di far fronte alle spese di preservazione e di conservazione.
Dietro questa scusa banale si nascondono atteggiamenti complessi delle istituzioni che, ricche di passato, vivono in modo conflittuale la carica simbolica rappresentata dai fondi antichi. Perché può serpeggiare, sotto questi discorsi, gonfi della retorica istituzionale e dei piagnistei degli amministratori, un velato progetto di distruzione? Perché questi antichi manufatti, che testimoniano impegno, progettualità, tempo lungo, diventano testimoni scomodi, da sopprimere, in un presente dove spesso si declamano e si cercano le origini o si loda la memoria? Forse perché il nostro tempo è il tempo del presentismo, secondo François Hartog [Régimes d’historicité. Présentisme et expériences du temps, Paris, Le Seuil, 2002], nel quale si sopporta mal volentieri la narrazione storica, perché si è installata una diffusa incredulità riguardo alla storia e le commemorazioni acritiche hanno preso il sopravvento. Perché abbiamo una percezione del futuro che genera incertezza, perché non si riesce a riconoscere più tra questi codici, se non con grande fatica, la speranza e la forza che li animava.
Martín M. Morales
Cher Père, La note que vous avez rédigée sur l’importance des Archives et la signification du soin qui leur est donné m’a beaucoup plu. Ceux qui pensent commencer une époque nouvelle détestent ces témoins du passé. L’Occident meurt de cette maladie. Amitiés, J. Joblin sj
Il giorno 31 maggio 2016 11:03, Archives of Pontifical Gregorian University
Merci a vous, cher père.
Un solo commento: diffondere capillarmente l’articolo tra tutti coloro i quali, direttamente o meno, dovrebbero farsi carico della conservazione di libri e documenti. Dunque, in primis, in aicrab-list Grazie e complimenti
cf
Grazie a lei dell’attenta lettura. E’ senz’altro gradita la diffusione.
Gentile Prof. Morales, l’articolo solleva una questione fondamentale per la società contemporanea. Mi limito a due brevi osservazioni: l’archivio di certo ricorda in modo molto selettivo, ma dimentica pure in modo molto selettivo. Chi custodisce un archivio dovrebbe confrontarsi con entrambe queste prestazioni. Secondo, un materiale archiviato ma irreperibile, oppure inutilizzato, è come se non fosse nemmeno mai esistito. L’archivio non si mette in moto da solo, la sua vita dipende dagli utenti e da coloro che mettono gli utenti in grado di interagire con l’archivio. Come diceva Daniel Georg Morhof: “Non juvat Thesaurus temere congestus. Non prodest libros cumulare, si illis idonee uti non possumus”. L’auspicio è dunque che il tesoro sia reso pubblico, perché soltanto così il suo valore aumenta.
Grazie per l’attenta lettura e per le preziose osservazioni.