La lunga quarantena degli archivi


L’archivio potrebbe essere pensato come una “zona rossa”, come un spazio in quarantena. D’altronde, negli archivi, almeno da quando si sono cominciate ad attuare politiche di conservazione e di tutela, siamo abituati a girare con il camice, con la mascherina e con i guanti (ahi, i controversi guanti…!). Da tempo è cresciuta in noi la sensazione di trovarci davanti a un malato, sofferente, spesso, e fuori da ogni metafora, infestato. Abbiamo cominciato a ricucire ferite, a colmare strappi, a lavare le carte. Abbiamo imparato, come se fossimo al capezzale degli infermi silenti dal dolore, a leggere nelle loro ferite l’incuria dell’istituzione e il logorio dell’uso, recuperando così una testualità al di là del testo. Sappiamo ormai come prendere in mano i codici per poi adagiarli non più in rigidi leggii ma in morbidi cuscini, ci siamo procurati luci fredde e filtri per limitare i raggi UV e così evitare l’ingiallimento delle carte. Ci siamo abituati a misurare la temperatura, l’umidità, a tenere a bada l’acidità delle carte ed aumentare la loro riserva alcalina, osserviamo il progredire delle ferite e ci rallegriamo quando vediamo che qualche codice torna in buona salute, con la sua legatura salda e con i suoi fogli pronti per essere nuovamente scorsi e letti, in modo che la traditio possa avere luogo. Per noi, abituati a patologie croniche e spesso insanabili, quelle risurrezioni sono gioie, purtroppo, molto rare. Ai pochi ricercatori, che in quanto congiunti si avvicinano agli antichi codici, abbiamo istruito come comportarsi, come tenere un atteggiamento composto e attento.

Interventi di restauro nel laboratorio dell’APUG

Spesso abbiamo usato la metafora del corpo per riferirci all’archivio: “Corpo documentario”. E nominandolo così, a cascata, s’inanellavano immagini ed analogie… Detto corpo ha delle parti pudende che variano a seconda dei tempi e degli occhi che osservano. Si è arrivati al punto che per alcuni tutto il corpo si è convertito in qualcosa di “non mostrabile”, non tanto per operazioni che prima erano affidate al potere censorio, ma più banalmente perché non si è più saputo cosa fare con quel corpo ossidato e incartapecorito, con l’antico parente invecchiato, dimenticato in un angolo della propria casa e divenuto irriconoscibile, un’estraneo in famiglia. Troppo spesso il “corpo documentario” evoca la figura di Sant’Alessio, mendico nella propria dimora, segregato in un sottoscala del palazzo paterno, e riconosciuto dal padre solo dopo la sua morte.

Talvolta il “corpo documentario” presenta parti, perché il corpo archivistico è ineluttabilmente frammentato, che certi occhi ritengono siano belle e colorate, pronte per essere consumate. Lacerante paradosso: la bellezza mostrata ha sempre qualcosa di mostruoso, quantomeno di osceno, vale a dire osservata al di fuori dalla scena, strappata dal contesto. Spesso quelle parti sono esposte alle luci della ribalta e impudicamente fotografate, innescando illusioni di possesso, sogni di fruizione, nonché svariati danni alle fragili membra. Ad ogni modo, ferito e claudicante il “corpo documentario” si presenta ancora con certa fierezza, disposto a ricevere domande complesse, orgoglioso del suo antico lignaggio, ma sopra ogni altra cosa si sa unico, a differenza dei parenti, un po’ più fortunati, che risiedono in biblioteca.

Noi siamo pronti per l’apertura, lo siamo da tanto tempo.

Una risposta a "La lunga quarantena degli archivi"

  1. Noi, parenti più fortunati, restiamo in quarantena fino a data da destinarsi. Anche noi giaciamo in alcuni armadi assisititi da amorevoli cure ma alle volte malati e “non mostrabili”. Siamo destinati,come è dalla nostra nascita, alla stessa sorte ma per noi è ancora tempo di pazienza ed attesa!
    Nicoletta

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