Il muro


Davanti a un muro


Sarebbe senz’altro inquietante abitare una casa, per anni, e non conoscere tutti i suoi ambienti. Ci sentiremmo dentro un incubo se lungo il corridoio di casa nostra passassimo ogni giorno davanti a una porta sempre chiusa o se sapessimo che accanto alla nostra camera da letto ce n’è un’altra, nella quale non siamo mai entrati. Ci troveremmo nella dimensione del perturbante, ove l’angoscia è il risultato di avere davanti qualcosa di familiare ma nel contempo estranea. L’unheimlich freudiano (S. Freud, Das Unheimliche), tra altre cose, evocherebbe il non essere “a casa” (heim), alloggiare in un “locus sospectus”.

Trovarsi davanti un muro spesso indica una situazione innanzi alla quale non c’è più niente da fare, che proclama l'irrimediabile.  I lavori nell'aula soprastante la sala di consultazione dell'archivio hanno lasciato a vista l'antico muro romano. È un'occasione per pensare, che è una conseguenza dell'abitare.  

Non potremmo mai sentirci padroni, saremmo sempre inquilini. Non per niente, gli antichi gesti, quando si entrava in una nuova proprietà, erano aprire e chiudere porte e finestre, proferire qualche urlo, tagliare alcuni rami degli alberi e qualche filo d’erba. Tutto ciò stava a indicare la presa di possesso ed era una manifestazione per dichiarare: “io abito qui”. Abitare, come ricorda Martin Heidegger, è la condizione primaria per esistere e per costruire: «solo se abbiamo la capacità di abitare, possiamo costruire» ci ripete insistentemente il filosofo (Costruire, abitare, pensare in Saggi e discorsi). Non è che costruiamo per abitare, edifichiamo perché abitiamo. Ci sono molte costruzioni dove le persone possono trovare un riparo perfino consolante: l’ufficio, dove trascorriamo tante ore della nostra vita, una sala di attesa, la penombra di una chiesa. Molte case possono essere costruzioni dove si alloggia, tuttavia, case e appartamenti delle nostre città non sempre hanno le garanzie per consentire che sia possibile abitarci. L’antica etimologia sassone e gotica dell’abitare rinvia al concetto di: “trattenersi”, di “rimanere nella pace”. Ogni nostro sforzo per pianificare, per costruire e per organizzare sarà vano se non ci tratteniamo. Semanticamente perfino, abitare, arriva a indicare il «rimanere nella protezione entro ciò che ci è parente e che ha cura di ogni cosa nella sua essenza».

Il tempio gigantesco


Parte dell’attuale edificio della traspontina dell’università Gregoriana è stato incastonato nello spazio di una delle due scalee che montavano verso un monumentale tempio sulla platea del Quirinale, forse il più imponente della Roma imperiale insieme al tempio di Venere e Roma. Secondo alcuni dedicato a Serapide, secondo altri a Ercole e Dionisio. Denominato anche il tempio gigantesco. (P. Pensabene, Il tempo gigantesco del Quirinale in La Storia e le Antichità). Andrea Palladio nella sua opera I quattro libri dell’architettura (1570) ha lasciato dei disegni che fanno capire la grandiosità del complesso templare. Il tempio misurava 56 metri di larghezza ed era profondo 84 metri. Il colonnato antistante era composto da 12 colonne di 21 metri di altezza e 2 di diametro e 17 colonne erano disposte sui lati lunghi. La sua altezza era all’incirca di 33 metri. La superficie del tempio occupava 13.320 metri quadrati. Le scalee che salivano dall’attuale Piazza della Pilotta al tempio si alzavano per 25 metri.

Secondo un’ipotesi ricostruttiva (Filippo Coarelli), in alto si trovava una statua della dea Roma (oggi a Villa Medici). Negli angoli del frontone c’erano le statue del Nilo e del Tigri (oggi al Campidoglio) e al centro le statue dei cosiddetti Dioscuri che oggi si trovano sulla piazza del Quirinale.

Un archivio in rovina


La sala di consultazione, quella sovrastante e gli uffici dell’Archivio si trovano nello spazio corrispondente a una delle due scalee che dal vicus caprarius (oggi via della Pilotta) montavano verso il tempio. Un puro caso ha legato il destino di questi ruderi monumentali con i resti dell’archivio del Collegio Romano oggi alloggiati nella Pontificia Università Gregoriana. A partire da questi destini incrociati, risultato della casualità più che della causalità, è possibile attribuire alcune distinzioni a tale insieme patrimoniale.

Lo storico, se accettasse l’invito di osservare le proprie osservazioni, potrebbe ammettere oggi, facendo appello alla sua onestà professionale, l’impossibilità di abitare il «paradiso di una storia globale» (M. de Certeau, La scrittura della storia, 97). L’accumulo di informazioni, che si pensava come il cuore della sua disciplina, celava l’illusione di ricomporre la totalità del passato. Ma questa stessa subdola e ingannevole dinamica getta allo storico nello sconforto allorché, al culmine dell’enorme lavoro di raccolta, il suo impegno si rivela caduco innanzi a un altro che include una nuova porzione di documenti.

Il ricercatore invece potrebbe posare lo sguardo sulla rovina in modo di spingersi a praticare la sua osservazione storiografica appostandosi ai margini, aggirando le «razionalizzazioni acquisite». Non potendo essere più il costruttore di un impero vaga fra le rovine e s’interroga davanti a quegli scarti che, abbandonati dalla scrittura centralizzatrice e istituzionale, si espongono al suo sguardo. A partire da questi “elementi marginali” provvederà a registrare le differenze, accuratamente nascoste ogni qual volta l’agognata continuità sembri di andare in frantumi. I documenti, anche essi oggi convertiti in scarti, si trovano a loro agio nella rovina, malgrado il suo abbraccio madido. Spuntano come monconi di difficile lettura, spesso rifiutano le attribuzioni semplicistiche, allo stesso modo delle rovine, resistono. Provengono da una selezione dalla quale, però, si è persa la cifra e si ripresentano illeggibili. Perfino, il restauro, che fatalmente strappa loro qualche vestigia, li colloca in un altrove che li misconosce e dove non si parla più la loro lingua. Quelli che mal sopportano la fragilità e la caducità volentieri girano lo sguardo da un’altra parte pur di non vedere queste testimonianze incartapecorite. Come succede davanti ai moribondi, dai quali è difficile tollerare la loro indefinizione, così i documenti diventano marginali per l’istituzione, organizzata intorno all’incalzare delle decisioni. L’organizzazione si considera viva nella misura in cui decide e in questo esercizio decisorio crea e ridefinisce il tempo, vale a dire “il tempo della decisione”. Questa vertigine decisionale, che stabilisce il tempo opportuno, spesso si coniuga male col tempo lento della rovina e delle antiche carte che, generate in un tempo lungo e per un altro orizzonte di aspettative, richiedono tanto tempo per la loro lettura; e lo pretendono da noi che diciamo di aver sempre un tempo scarso tra le mani. Distogliendo lo sguardo però, seguendo il ragionamento di Heidegger, non si abita il mondo, perché abitarlo implica sapersi mortali ma per questo custodi.

Dalla consapevolezza di trovarci davanti al muro proseguiamo con il nostro compito di tramandare quello che abbiamo ricevuto. Non sappiamo chi saranno gli eredi e tanto meno cosa faranno con ciò che noi cerchiamo di sottrarre dal degrado imminente. Con una certa indifferenza lasciamo che le nostre rovine possano irritare i sistemi circostanti in attesa di probabili e imprevedibili risonanze.

2 risposte a "Il muro"

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