Lucubrationes diurne


Nella Naturalis historia (XVIII, 41-43) si narra che il liberto Caio Furio Cresimo fu accusato di agire con incantesimi giacché dal suo piccolo podere otteneva dei raccolti abbondantissimi. Si presentò al Foro per la sua difesa accompagnato dalla sua servitù ben tenuta e ben vestita, con tutti i suoi attrezzi agricoli, con i suoi buoi ben pasciuti e pronunciò queste parole: “O Quiriti, sono queste le mie stregonerie, e non vi posso mostrare o portare nel Foro le mie riflessioni notturne (lucubrationes meas), le veglie e i sudori. E così egli venne assolto con i pareri di tutti. L’uso del termine elucubrazione (et. lucubrum, ciò che serve a dare luce), attestato a partire dalla metà del XVI secolo, stava a indicare un impegno che non conosceva riposo, spesso solitario e silenzioso. Dalla metà inoltrata del XIX secolo (Crusca, 5ª ed., 1863) il vocabolo incorpora un significato negativo e ironico in quanto riflessione che non porterebbe a risultati pratici. Nel nostro piccolo podere, questo nuovo rapporto tra teoria e praxis, normalmente impensato, è al centro delle riflessioni del primo seminario realizzato il 30 settembre scorso.

Questo incontro nasce dal desiderio di condividere le riflessioni emerse nel corso di quasi tre anni intorno a un codice sul quale è stato esercitato uno sguardo complesso. Il manoscritto F.C. 1165/1 è uno degli esemplari dell’opera Clavis prophetarum del gesuita Antonio Vieira (1608-1697) conservato presso l’Archivio storico della PUG. Intorno a questo studio di caso, si è tenuto il seminario che inaugura un ciclo dal titolo: Lucubrationes diurne. Per più di due anni, nel laboratorio dell’APUG, il codice è stato sottoposto a una serie di analisi e interventi conservativi, frutto di una riflessione teorica sulle pratiche e sul concetto di materialità. Considerare il silenzio della materia implica che per arrivare alla sua concretezza è necessario districarsi per i sentieri ripidi dell’astrazione.

Gli enunciati hanno sempre bisogno di un substrato materiale: una voce, o una pagina stampata o manoscritta, ossia, presuppongono un veicolo d’informazione. La materia è una precondizione necessaria per la comunicazione ma essa non comunica.  Così come un testo è tale nella misura in cui è ricevuto da un lettore, allo stesso modo l’esistenza materiale degli enunciati si osserva a partire da un sistema sociale, per mezzo di determinate distinzioni.

I codici dell’APUG permettono uno studio stratigrafico della sequenza di osservazioni realizzate da determinate aspettative sociali. Il manoscritto della Clavis prophetarum di Antonio Vieira, è un caso privilegiato per realizzare queste osservazioni. Oltre ai quattro esemplari conservati in APUG va annoverato anche il ms. 706 oggi nella Biblioteca Casanatense considerato fino al rinvenimento del nostro manoscritto l’esemplare più antico. La specificità del seminario è legata allo sguardo complesso che può essere rivolto alla struttura materiale e compositiva di un documento. Datato 1699 si distingue dagli altri quattro per una serie di ragioni: i formati diversi delle carte, di cui la maggior parte risultano non rifilate e di provenienza diversa (testimoniato dalla presenza di 5 tipologie di filigrane); la presenza di inserimenti e aggiunte sotto forma di strisce o intere carte incollate sui margini o direttamente sul testo; l’alternanza di mani che compongono e intervengono a più riprese nel testo. La situazione descritta lascia supporre che il manoscritto sia stato composto riunendo insieme fascicoli scritti in periodi e luoghi diversi e solo successivamente ricomposti come corpus unitario.

Nel seminario più che rivolgere la nostra attenzione alle pratiche di conservazione e di restauro, abbiamo voluto riflettere sull’evoluzione delle comunicazioni in questo ambito. Le comunicazioni attorno alla conservazione del libro e della carta, a partire dal XX secolo, riproducono la differenziazione della società e separano una serie di concetti e di pratiche che prima erano indifferenziate. Questo è, per esempio, il caso delle prime regole per le biblioteche della Compagnia di Gesù (sec. XVI) o il celebre poema Ad tabulas del monaco Baudri (1046-1130), abate di Borgueil nel quale si descrive il restauro delle sue tavolette cerate. In questo senso, la documentazione storica e artistica è abbondante per poter seguire le distinzioni con cui, libri e manoscritti, sono stati osservati lungo la storia e in particolare nella prima modernità. A questo proposito emblematici i numerosi codici dell’Archivio storico della Pontificia Università Gregoriana rilegati un tempo dai gesuiti del Collegio Romano con i resti delle pergamene dei tanti libri liturgici che, dopo la riforma di Pio V (1570), erano diventati obsoleti. Una pratica diffusa, già viva nel Medioevo e frequentissima dopo l’invenzione della stampa fino a metà del secolo XVII, che oggi è stata addomesticata con il termine di “legature di riuso”. Il recente movimento di recupero di queste legature, ha messo a fuoco il paradosso che per arrivare all’origine (spazio sempre mitico) è necessario alterare una serie di strati previ. Oltre ai ragionamenti intorno alla loro conservazione, l’uso di tali pratiche ha dato luogo a interessanti riflessioni sul rapporto tra conservazione del bene culturale e il sistema sociale nel quale s’inscrive. Se i gesuiti del Collegio Romano, fino alla metà del XVII secolo, non provavano nessun moto di protezione riguardo alle pergamene in disuso, ma le riutilizzavano per rilegare il loro materiale d’insegnamento, era perché non avvertivano una frattura tra passato e presente, e allo stesso tempo si sentivano ricchi di un futuro che ancora rimandava a una concezione escatologica. La relazione tra passato e futuro, tra XV e XVII secolo, è stata molto diversa da quella che si stabilirà dopo la Rivoluzione Francese, e che si è trasformata ancora nel nostro regime di temporalità.

Il libro, è spesso presente nella simbolica delle Vanitas. Il volume squinternato nel dipinto di Juan Carrión, rappresenta tutta la fragilità del sapere e di un tempus in confronto all’aeternitas.

La metodologia che ci siamo prefissati per svolgere il seminario prende spunto dal testo di Michel de Certeau: Cosa è un seminario.

Un seminario è un laboratorio comune che permette a ciascuno dei partecipanti d’articolare le proprie pratiche e conoscenze. È come se ciascuno vi apportasse il «dizionario» dei suoi materiali, delle sue esperienze, delle sue idee e che, per l’effetto di scambi necessariamente parziali e d’ipotesi teoriche necessariamente provvisorie, gli diventasse possibile produrre delle frasi con questo ricco vocabolario, cioè di «ricamare» o di organizzare in discorsi le sue informazioni, le sue questioni, i suoi progetti, etc. Questo luogo di scambi instauratori potrebbe essere comparato a quello che, nella Loira, si chiama un caquetoir, appuntamento settimanale sulla piazza principale, laboratorio plurale, dove dei «passanti» si fermano la domenica per produrre nello stesso tempo un linguaggio comune e dei discorsi personali. Un seminario mette così in causa una politica della parola, come vedremo. Tuttavia in rapporto al caquetoir presenta la differenza di non essere il solo appuntamento per le chiacchiere ma solamente un luogo di linguaggio tra molti altri in una rete che non comporta più né piazza principale né centro.

Questo primo seminario è stato pensato per riconoscere nostri propri dizionari o come direbbe Richard Rorty (La filosofia dopo la filosofia), per riflettere circa il nostro vocabolario decisivo. È stato un primo passo per iniziare ad elaborare una teoria del nostro ars faciendi. Condividiamo un testo di Rossana Lista “Proprietà e improprietà della conservazione e del restauro“, preparato per l’occasione, che chi ha aiutato a realizzare un caccia di frodo come consigliava lo stesso Certeau.

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